Il recupero di certo cinema italiano di genere è diventato, nel corso degli ultimi anni, una moda che corre costantemente il rischio di scadere nella celebrazione sterile, priva di qualsiasi istanza critica.

Dalla (ri)scoperta di alcune gemme nascoste all'interno della filmografia di autori quali Lucio Fulci o Mario Bava si è così passati al delirio "recuperante" di parte dei critici, ora strenui difensori di pierini e ubaldone varie, pronti a reclamare a gran voce sezioni del festival di Venezia dedicate a Bombolo o Jimmy il Fenomeno.

La ripercussione nel settore cartaceo non si è fatta certo attendere e qualunque imbrattacarte ha trovato campo facile nel mettere insieme qualche dato raccolto su imdb, una decina di foto sgranate e alcune interviste rimasticate pensando di poter dire facilmente la sua su Bava, Aldo Lado o Fulci.

Fare il critico è cosa facile, basta andare al cinema (anzi, meglio ancora, si noleggia il dvd che almeno ci sono i contenuti speciali, perché l'Italia è piena di critici e allenatori in pantofole che odiano togliersi il pigiama) e sparare quattro giudizi sul film, magari stroncando o esaltando a caso, senza seguire particolari criteri.

Paolo Fazzini non appartiene, per nostra enorme fortuna, alla banda dei critici pantofolai. L'amore per il cinema lo fa uscire di casa, lo spinge a intervistare di persona alcuni dei protagonisti di quella fortunata stagione nella quale il cinema di genere italiano dettava le leggi invece di subirle.

Gli artigiani dell'orrore, a partire dal titolo fin troppo programmatico, si muove intorno a una questione che alla fine della lettura parrà forse irrisolta ma che è comunque il cuore centrale di quest'opera. Questi registi sono artisti, autori tout court oppure rimangono bravi tecnici, appunto onesti artigiani di certo cinema di genere? Parlavo di questione irrisolta perché la domanda, più volte ricorrente nelle interviste che Fazzini conduce, ottiene spesso risposte contrastanti da parte dei vari protagonisti: da chi non ha dubbi riguardo alla dimensione autoriale di Fulci, Bava e compagnia (e io mi aggiungo a quest'elenco) a chi rivendica fieramente una dimensione artigianale a chi infine non riesce (o non vuole) rispondere a questo dilemma.

Fazzini evita quella che io considero la più grande e noiosa trappola nascosta in operazioni di questo tipo: non ci ammorba con una lunga sfilza di schede e recensioni dei "film che furono" e, vi assicuro, è cosa rara. I dizionari e vocabolarietti di vario tipo sono la manna di certi scrittori e di certo pubblico che preferisce le stelline o il pollice verso al discorso articolato, all'analisi storica, alle considerazioni anche personali in merito alle pellicole. Si pensa che avendo a casa un libro con (cito a esempio sperando che non esista in realtà) "I migliori 500 film del terrore" si abbia automaticamente la chiave della conoscenza mentre è proprio attraverso operazioni come quella di Fazzini che si riesce a capire meglio il perché di un dato avvenimento e i motivi che hanno portato alla sua morte.

Il critico non casca mai nel giudizio sterile e lapidario, sia in positivo che in negativo e preferisce invece fornire un ampio discorso di cornice storica quale preambolo alle tante interviste, alcune memorabili e indispensabili, altre un po' meno.

Le persone intervistate sono molte ma preferiamo elencarvele egualmente per farvi rendere conto del lavoro presente alla base di questo libro: Lamberto Bava, Gabriele Barrera, Antonio Margheriti, Renato Polselli, Vittorio Giacci, Daria Nicolodi, Claudio Simonetti, Antonella Fulci, Giannetto De Rossi, Dardano Sacchetti, Sergio Martino, Pupi Avati, Antonio Bido, Armando Crispino, Aldo Lado, Dario Argento, Michele Soavi, Luigi Cozzi, Sergio Stivaletti, Antonio Tentori, Ruggero Deodato.

Ci sono interi decenni di storia del cinema italiano in quell'elenco e se alcuni di voi potranno storcere il naso di fronte a certi nomi non possiamo far altro che sottolineare l'importanza di un percorso completo che analizzi tutti gli aspetti del periodo trattato.

Difficile quindi trovare dei difetti in un volume del genere, che si pone fin da subito come imprescindibile riferimento per future riflessioni sul fenomeno del cinema di genere italiano. Volendo essere pignoli possiamo indicare due stonature, una di scarsa importanza l'altra invece più rilevante. Il discorso di Fazzini ricalca a volte fin troppo da vicino quanto già scritto da Maurizio Colombo e Antonio Tentori nel loro Lo schermo insanguinato (Solfanelli, 1990) ma questo è più che altro dovuto all'inevitabilità di certe cronache, mentre decisamente esagerato è il prezzo (diciotto euro) per un volume brossurato di piccole dimensioni, con scarso materale iconografico e di "sole" 264 pagine.

Ma sono annotazioni che non scalfiscono la qualità del lavoro di Fazzini che contiamo di rivedere presto all'opera con altri testi di questo tipo.