Trevor Reznik sembra incapace di dormire. Si aggira insonne per una città affollata e deserta, vaga per il bar dell’aeroporto e non trova consolazione nemmeno fra le braccia di una prostituta innamorata di lui. Non dorme da un anno e dimagrisce costantemente. In fabbrica i vecchi amici non lo riconoscono più e il processo di straniamento ha il suo culmine con un infortunio sul lavoro: Trevor si sente responsabile per la perdita di un braccio da parte di un suo collega e gli altri operai non gli perdonano l’incidente… Il clima di paranoia cresce giorno dopo giorno, strani indizi (dei post it con strani messaggi che trova in casa sua, una fotografia misteriosa, un uomo grasso e calvo che gli altri sembrano non vedere) cominciano a fissarsi nella sua mente andando pian pano a ricomporre il quadro di un puzzle allucinato e tragico…

Impossibile parlare de L’uomo senza sonno senza riflettere sulla performance di Christian Bale, uno dei nomi più interessanti fra gli attori emersi negli ultimi anni e uno dei pochi a saper usare il corpo quanto (se non di più) il volto.

Ricordiamo con piacere le sue prove sia nel sottovalutato American Psycho che in Equilibrium o ne Il Regno del Fuoco. Interpretazioni gestite con ottimo uso della presenza scenica, mettendo il proprio corpo al servizio del regista di turno. Siamo sicuri che proprio in base a questa nozione Bale verrà ricordato come il migliore Batman nell’imminente film di Nolan. Lo troviamo ora dimagrito di circa trenta chili (si narra di una dieta controllata che prevedeva una mela e una scatoletta di tonno al giorno) fornire una prova memorabile che diventa irrimediabilmente il punto focale dell’intero film.

Lo scheletro di Bale, spesso riflesso in specchi e superfici lucide, altrettanto spesso “spiato” dagli altri attori e dall’attonito spettatore diventa ben presto l’indice dei pregi e dei difetti di un film dilaniato fra una resa estetica impressionante e una sceneggiatura carente e banale.

Scott Kosar dimostra la sua scarsa vena in fase di script evidenziando limiti già apparsi evidenti nel precedente Non aprite quella porta: dialoghi piatti e mediocri, caratterizzazione psicologica assente, ripetizione pedissequa di moduli narrativi già abusati.

La vicenda, va da sé, mischia elementi kafkiani con una struttura di accumulo progressivo di particolari che ha ormai raggiunto il suo punto di saturazione nel cinema contemporaneo attraverso pellicole (è banale ricordarlo) quali I soliti sospetti, Il sesto senso o Memento: la rivelazione finale non può più giungere come sorpresa al pubblico ormai smaliziato e i vari dettagli sembrano più fastidiosi trucchi che componenti strutturali indispensabili.

Kosar ci tiene ad alzare il tiro ed uscire da certa vena giovanilistica che sembrava averlo caratterizzato nel precedente lavoro e dissemina il film di segni che diventano irritanti (il libro di Kafka, quasi non avessimo capito l’atmosfera) o fuori luogo (meglio de L’idiota di Dostoieski sarebbe stato citare Delitto e castigo, no?).

Tenendo quindi conto del copione penalizzante, c’è da rimarcare quanto Brad Anderson sia riuscito a fare di buono in questa pellicola: il cineasta marca stretto le vertebre di Bale fino a diventarne ossessionato e le espone in una ipotetica mostra delle atrocità che gioca sempre sul confine della pornografia senza mai varcarlo, non dimentica il suo interesse per la working class (già mostrato nel precedente, piacevolissimo Session 9) trasportando questo anomalo Gregor Samsa in fabbrica e, coadiuvato da scenografia e fotografia, riesce a recuperare in atmosfera quello che manca sulla pagina scritta. Siamo dalle parti di Murnau e Polanski (ma è anche forte l’impressione di trovarsi in un videoclip di Chris Cunningham) senza possederne il vigore ma le scelte degli interni ed esterni (la fabbrica, il luna park, l’abitazione di Trevor , il bar dell’aeroporto) immersi in luci e ombre e i primi piani insistiti sono fatti con giusto rispetto citazionista nei confronti di certo espressionismo.

Menzione particolare merita il lavoro di Xavi Giménez, abile in un gioco che da Seven in poi è diventato quasi legge per i thriller: sottrae e desatura i colori potenziando il b/n con la differenza che questa volta, rispetto ad altre pellicole, i rapporti vengono continuamente alterati a seconda delle scene, creando un vero e proprio effetto di discesa e risalita dall’incubo. Non ne siamo stupiti in quanto la bravura di Giménez era già stata una delle poche cose brillanti in pellicole altrimenti mediocri quali Darkness e Nameless.

Lavorare accanto a un Bale in questa forma non è cosa facile ma la produzione ha avuto l’intuito di sfruttare nomi quali la magnifica Jennifer Jason Leigh (quando ci accorgeremo dell’importanza di questa splendida quarantenne all’interno di certa filmografia thriller e fantastica?), attrice che riesce facilmente ad accettare e interpretare ruoli comprimari senza cercare di primeggiare e Michael Ironside, nome mitico che ha una lunghissima carriera in ruoli secondari ma memorabili.

Anderson viaggia a corrente alternata e un montaggio diverso, con il film ridotto di una decina di minuti avrebbe senza dubbio fatto bene alla resa finale ma è anche vero che ci regala alcune scene di sicura efficacia (il frigo pieno di sangue, il “viaggio” nella giostra della paura alla fiera, l’infortunio sul posto di lavoro…).

Si esce dalla sala con la convinzione di aver assistito a un divertito e colto gioco d’autore che sarebbe stato nobilitato da una scrittura più sensibile e attenta, problema comune a fin troppe pellicole che escono oggigiorno.