Adattare le opere di HP Lovecraft per il grande schermo non è mai stato un compito facile. Se poi si sceglie di mostrare un colore che non appartiene allo spettro del visibile, le cose si complicano non poco.

Eppure Richard Stanley riesce a evocare l’alieno con una semplicità disarmante. Attraverso una fotografia che tinge di porpora una natura maestosa, rievoca l’orrore cosmico in maniera decisamente più efficace della narrazione in sé. Tutto quello che non è immagine finisce infatti per diventare accessorio, riempitivo: dalle inutili sdolcinatezze che avrebbero fatto rabbrividire il solitario di Providence a Nicolas Cage. Già, Nicolas Cage. Quando è stata annunciata la collaborazione tra Stanley e Cage abbiamo creduto che quell’unione fosse la materia di cui sono fatti i sogni. Eppure ci sbagliavamo. Cage è eccessivo dal primo minuto in cui compare in scena, fino a trascendere nella seconda parte della pellicola. Non riesce a prendere le misure e va nella direzione opposta al film, tanto che in più di un'occasione sfiora il ridicolo. E purtroppo non è il solo. Stanley dipinge una "normalità" che è già abbastanza bizzarra ben prima della caduta del meteorite. Tra adolescenti che praticano wicca, sociopatici e mungitori di alpaca, la discesa verso la follia non può che perdere d’impatto. Più che subire l’influsso del colore, i personaggi sembrano essere assolti, finalmente liberi di diventare loro stessi.

Nel racconto di Lovecraft, la mutazione avviene per gradi: prima le piante, poi gli animali e infine gli uomini. Consumati e poi disfatti. Stanley è ovviamente costretto a restringere la linea temporale, ma fa l’errore di concentrarsi in maniera eccessiva sulla famiglia Gardner. Cage era già abbastanza inquietante come padre premuroso e le radiazioni cosmiche sembrano solo fargli bene, ma il resto della famiglia reagisce in maniera fin troppo approssimativa. Quando il colore inizia a esercitare la sua influenza i loro comportamenti si fanno confusi, esagerati, incoerenti. E la magia di Lavinia si rivela nella sua inutilità.

La trasposizione di Stanley perde gran parte della potenza evocativa di Lovecraft, ma pur se con qualche grossolano errore, la sua è una delle migliori letture non solo di Il Colore venuto dallo spazio ma dell’opera del solitario di Providence. E  poi ogni passo falso è perdonato quando in scena fanno la loro comparsa le ripugnanti creature che rendono omaggio al mostro di La cosa.