Film del 1960 diretto da Giorgio Ferroni, regista conosciuto più per aver diretto numerosi pepla e western. Il mulino delle donne di pietra rappresenta la sua prima incursione nell’horror, cui ne seguirà una seconda, a dodici anni di distanza, con La notte dei diavoli.

Trama: Lo studente Hans si reca dallo scultore Gregorius Wahl per portare a termine una ricerca sull’arte popolare olandese. L’artista ha realizzato un macabro carillon mosso dal movimento delle pale di un mulino, con protagoniste celebri eroine del passato. Il professore non vive solo all’interno del mulino, con lui c’è sua figlia che nasconde un terribile segreto.

Perché vederlo: Il mulino delle donne di pietra viene girato nel periodo di massimo splendore per il genere.

Sceneggiato da Remigio Del Grosso, Ugo Liberatore e Giorgio Stegnani, oltre che da Ferroni stesso, la trama trova uno sviluppo originale sulla base di dubbi e equivoci.

Da subito si entra in un’atmosfera onirica e fantastica attraverso la quale l’orrore prende forma e si fa sempre più chiaro, fino a trovare motivazione nell’amore di un padre, un amore immenso a tal punto da cancellare qualsiasi principio morale.

Il plot non molto innovativo riprende l’idea che sta alla base del Frankenstein di James Whale del 1931: un dottore ha come unico obiettivo quello di ridare la vita, poco importa che il paziente sia ancora in vita o già morto.

Numerosi sono anche i rimandi a La maschera di cera (1953) diretto da André De Toth. Entrambe le pellicole hanno come tema centrale la figura del "mad arstist" ossessionato dalla bellezza femminile, ed entrambe si concludono con un rogo.

A dispetto delle analogie con altri film, il risultato finale si rivela originale ma il racconto arranca in più momenti finendo spesso per annoiare.

Il mulino delle donne di pietra può contare su due punti di forza: fotografia e scenografia. Così come i temi, anche l’ambientazione non è particolarmente originale (dopo che il Mostro ha catturato Frankenstein, lo porta in un mulino a vento), ma senza dubbio suggestiva.

Sconcerta l’enorme carillon e la sfilata delle donne che lo compongono, così come colpisce la cupezza dell’interno dell’isolato mulino. 

Molto ben costruito anche il laboratorio del dottore, ricco di alambicchi, vetri, tubi e macchinari avveniristici.

Magnifica è la livida fotografia di Pier Ludovico Padovani che con le luci crea un quadro di intensa vivacità e dà prova di straordinarie capacità durante la scena che mostra Hans delirante a causa della droga. Padovani riesce a confondere e quindi a unire l’aspetto onirico a quanto accade realmente all’interno del mulino.

Bellissima Scilla Gabel, attrice conosciuta in principio come sosia di Sofia Loren e poi protagonista di numerosi peplum, che interpreta la figlia dello scultore. Cinica e diabolica non le importa essere la responsabile di molteplici morti.

Dany Carrel è invece Liselotte, che al contrario è una ragazza virginale e semplice. La distinzione così netta e quindi la contrapposizione tra le due personalità delle protagoniste femminili, diventerà un topic ricorrente in molti altri film a seguire.

Una cura particolare viene riservata all’effetto visivo, che nulla ha da invidiare alle opere Hammer ma a differenza dei film inglesi, Ferroni preferisce concentrarsi più sul piano romantico che non su quello gotico. Mancano scene truculente e il sangue non viene mai mostrato, ma l’atmosfera di cupezza molto ben congeniata rende con forza il senso di angoscia.

Il mulino delle donne di pietra è uno dei più validi esempi di gotico italiano che racconta con sapienza una storia d’amore e di morte.

Curiosità: Il film è tratto da una storia contenuta in I racconti fiamminghi di Pieter Van Veigen.