E’ da poco uscito, nelle sale cinematografiche italiane, The Shock Labyrinth: Extreme 3D, l’ultima fatica di Takashi Shimizu, il regista che nel 2001 fece tremare il mondo intero con Ju-on: The Grudge. Shimizu ha rivelato, sin dagli esordi, un’innata abilità nel gestire gli spazi, rendendoli i principali evocatori di angoscia e inquietudine dei suoi film. Ora, con quest’ultimo lavoro, ha potuto sfruttare a pieno il suo talento grazie alla tecnologia 3D, realizzando il primo horror asiatico a tre dimensioni degno di nota. 

La sensazione meglio trasmessa dal film, grazie soprattutto alla capacità di Shimizu sopra citata, viene infatti dall’ambientazione: è la claustrofobia. L’ospedale, con i suoi intricati corridoi, rappresenta alla perfezione la contorta condizione mentale dei personaggi. Ma andiamo con ordine.

Dieci anni dopo la sua scomparsa in un luna park, Yuki riappare misteriosamente nella sua città natale, nello stesso giorno in cui Ken, suo amico d’infanzia, decide di farvi ritorno. Quest’ultimo, con gli amici Rin, Motoki e Miyu, accoglie calorosamente Yuki e la accompagna a casa. Qui il pupazzo di un coniglio terrorizza a tal punto la ragazza da provocarle un attacco di panico e farla ruzzolare giù per le scale. I quattro decidono così di portarla in ospedale ma, una volta lì, si accorgono che qualcosa non va: non c’è nessuno, alcun paziente, alcun medico. In mezzo alla confusione generale, Yuki, riacquistata coscienza, scompare nuovamente. Nel misterioso ospedale, Ken, Rin, Motoki e Miyu dovranno fronteggiare il loro inconscio, rievocare ricordi opachi e confutare la loro salute mentale.

Il passato è lì ad attenderli, nella casa degli orrori dove lo hanno abbandonato.

Sebbene non sia niente più che un pretesto per trattare d’altro, la trama appare già sentita, una poltiglia nauseante a cui è stata succhiata anche l’ultima goccia di simbolismo da mille film venuti prima.

Un pretesto, dicevamo, per parlare di paure infantili che non ci lasciano mai, di shock emotivi che ci portiamo dentro per tutta la vita, di un passato che non vuole passare. Un’ottima base, è indubbio, per un film di successo: lo spettatore si immedesima, viene risucchiato dal vortice che tutti ci portiamo dentro, e inizia ad avere paura anche dell’ombra oltre lo schienale della signora seduta in terza fila. Ecco, questo è un horror psicologico di successo, non il film di cui trattiamo. Quello che manca è tutta la carica emotiva, indispensabile, che tematiche del genere dovrebbero veicolare.

Colpa forse anche degli attori, incapaci di trasmettere la giusta inquietudine, la giusta paura, il giusto rimorso per (in entrambi i sensi) un film del genere. Li citiamo affinché ognuno si assuma le proprie responsabilità: Ai MaedaShôichirô MasumotoSuzuki MatsuoYûya YagiraRyo KatsujiMisako RenbutsuErina Mizuno.

Shimizu si accorge probabilmente dell’inadeguatezza del cast e, nell’ultimo, vano, tentativo, cerca di affidare la creazione e la trasmissione della doverosa suspence agli oggetti: bambole, scale a chiocciola e pupazzi. Questi, anche per valorizzare al massimo la visione tridimensionale, vengono continuamente avvicinati all’obiettivo della videocamera, lanciati in primi piani che vorrebbero trasmettere un simbolismo ormai debole. La scala a chiocciola, per esempio, è ormai una metafora classica nel thriller e nella favola noir, generi in cui The Shock Labyrinth rientra a pieno titolo. Immagine più emblematica del film, la scalinata che percorre Yuki è il simbolo del processo psicologico dei protagonisti, dell’immersione nei meandri oscuri della loro coscienza, del loro rimorso.

Che cosa resta allora del 2001? Dov’è finito l’horror giapponese? Quello che ti toglieva il fiato e ti costringeva a stringere più forte i braccioli della poltrona?

Come non ricordare l’era florida e tenebrosa di Ju-on, il cui corrispettivo a stelle e strisce fu The Grudge, preceduto dall’ancor più noto Ring di Hideo Nakata.

Sembra quasi che Shimizu si sia bloccato. Come la puntina di un giradischi incantato, non riesce ad andare oltre i fin troppo noti fantasmi femminili con i loro lunghi e spazzolati capelli neri che nascondono gli occhi a mandorla. Il fotogramma si è bloccato. Proiezionista?

C’è da dire che immagini inquietanti ce ne sono in abbondanza. Peccato che tutte diventano involontariamente comiche e blande. Pensiamo al coniglio giocattolo volante: scatena un attacco di panico così forte in Yuki da spingerla a cadere dalle scale, cosa che appare inverosimile. E pensare che tutta la pubblicità del film girava proprio intorno a questo pupazzo...

Chiudiamo con una piccola curiosità: Takashi Shimizu si è ispirato a un’attrazione nipponica realmente esistente. Il titolo originale della pellicola, infatti, è Senritsu meikyû, nome di un’attrazione del parco a tema Fuji-Q Highland. Si racconta che, prima che venisse costruito il luna park, sullo stesso suolo si trovasse un ospedale, incorporato poi nel parco dei divertimenti come una delle attrazioni. 

Speriamo che questo film non rimanga nella coscienza di Shimizu come il suo più grande rimorso. "A volte ho dei sogni strani, ricordi del passato che vorrei dimenticare" (cit. The Shock Labyrinth).