La diciottenne Casey Beldon è tormentata da un Dybbuk, l'anima di una persona morta a cui è stato impedito l'ingresso in Paradiso, che le si presenta nella forma di un ragazzino morto ad Auschwitz. Casey scoprirà in seguito di aver avuto un fratello gemello, nato morto, soffocato dal suo cordone ombelicale: il fratellino e il Dybbuk sembrano essere legati tra loro. In soccorso alla ragazza intervengono una veggente, la migliore amica, un prete e un rabbino...

L’idea, il soggetto di Il mai nato di David S. Goyer è interessante, perché tocca temi non privi di un loro fascino enigmatico, come quello (centrale nel film) della gemellarità e dei suoi lati oscuri, persino “psichiatrici”, se pensiamo al suicidio della madre della protagonista, chiusa in un manicomio, dopo una depressione post-partum che la porterà appunto alla morte. Il problema di questo film è che Goyer infila nello stesso sandwich troppi ingredienti dai sapori molto diversi tra loro: il risultato, sul palato dello spettatore, è che il sandwich a tratti sembra buono e a tratti indigesto perché alcuni sapori non si mescolano affatto tra loro. Per esempio il tema della gemellarità si sovrappone a quello della classica “ghost story”, che a sua volta è intrecciato a quello della possessione demoniaca, con tanto di connesso esorcismo, il tutto condito in una salsa thriller che disvela piano piano il suo disegno, senza peraltro aggiungere nulla agli altri ingredienti che si affollano e si stratificano nello script. Ulteriore appesantimento narrativo deriva dal rimando storico al nazismo che arriva a scomodare addirittura il Dottor Mengele, personaggio che compare per un breve attimo per poi scomparire come una cometa nel firmamento. Non pago di tutta la carne al fuoco che ha messo sulla brace, il nostro laborioso filmmaker riprende sequenze e citazioni da altri maestri, quali il Friedkin di L’esorcista e il Carpenter di ll seme della follia nelle scene di contorsione corporea umana e animale. Tutto ciò ci viene presentato come se fosse una grande reinvenzione interpretativa, risultato che rimane naturalmente più nelle intenzioni di Goyer che nella resa filmica concreta. Si tratta infatti di scene che avrebbero potuto essere utilizzate al meglio per via della loro potenza evocativa e straniante, ma Goyer sembra rinunciarvi, volgendo anche lui la testa dalla parte opposta. Stessa sorte tocca alla bella scena del bagno della discoteca, troppo breve però, poco lavorata e che entra troppo velocemente nel dimenticatoio: uno spunto interessante come stilema horror, sul quale il regista preferisce sorvolare. Ci sono troppe cose in questo film, troppa materia polimorfa e complessa da governare, che quasi immediatamente sfugge dalle mani di un regista superficiale, facendolo deragliare definitivamente nelle ultime scene, quelle dell’esorcismo, tra le più approssimative e malgirate che abbia mai visto da molti anni a questa parte. Un vero peccato, perché sono comunque presenti alcune intuizioni interessanti: come il flash-back onirico di Casey bambina che va a trovare la mamma in ospedale e scopre il volto della malata tramutato in una smorfia mostruosa e terrorizzante. Anche l’uso della simbologia dello specchio è usata con una certa originalità, ma anche questo tema scivola via ben presto nel gran minestrone di una sceneggiatura bulimica che incespica e cade, si rialza, per poi ricadere, fino al definitivo capitombolo finale. Luci, fotografia, musiche e qualità recitativa del cast sono poi elementi dei quali praticamente non si percepisce l’esistenza, e dei quali Goyer sembra quasi voler fare a meno, tanto sembra concentrato a sovrapporre temi su temi, senza mai approfondirne o svilupparne appieno almeno uno.