Tratto da una storia vera, Il Messaggero racconta la terribile esperienza di una famiglia alle prese con misteriose forze maligne soprannaturali il cui scopo è quello di possedere l’anima di uno dei loro figli, malato di cancro. Quando i Campbell si trasferiscono nel Connecticut, in una località limitrofa a un ospedale specializzato nella cura della malattia del figlio,

apprendono immediatamente che la loro nuova grande casa vittoriana nasconde una storia inquietante: non solo in passato era presente nella casa una stanza adibita a camera mortuaria, ma in questa stanza sembra fossero accaduti fatti terribili. La famiglia scopre che il figlio chiaroveggente del vecchio proprietario – Jonah – si prestava ad assumere la funzione di messaggero demoniaco, fungendo da “ingresso” al passaggio di spiriti sinistri. Un terrore difficilmente dicibile comincia ad appalesarsi quando Jonah ritorna per scatenare la sua furia, questa volta sull'innocente e ignara famigliola già segnata da una potente vicenda traumatica.

Peter Cornwell confeziona un film difficile di per sé da condurre, a fronte di uno script che contiene molte suggestioni, molti rimandi tutti potenzialmente sviluppabili ad libitum. Manovrare “roba grossa” come il tema del “poltergeist”, o quello del “portale verso l’aldilà”, oppure anche quelli dello spiritismo ottocentesco con annessi ectoplasmi svolazzanti, non è un lavoro che chiunque possa permettersi, senza correre il rischio di cadere nel superficiale se non addirittura nel comico-paranormale. Cornwell invece rivela una certa sobrietà e una non comune inventiva nel cucinare tali e tanti esotici ingredienti. Certo, poteva osare di più, e per esempio elaborare in modo più profondo il tema della possessione di Matt da parte de giovane Jonah, sia sul piano dei dialoghi, sia su quello registico-visivo. Tuttavia sono presenti in questo film molte piccole cose preziose che lo elevano di molte spanne al di sopra della palude dei soliti remake, sequel e prequel in cui si dibatte stancamente il cinema horror statunitense contemporaneo. Si tratta di brevi ma intense, perturbanti scene (come quella delle visioni criptozoologiche di Matt, o anche la sinistra sequenza dello straccio da pavimenti intriso di sangue), oppure di sequenze in cui il tema scivoloso dello spiritismo è trattato invece con molta sapienza (la scena dell’ectoplasma che fuoriesce dalla bocca del piccolo Jonah è suggestiva e decisamente tra le migliori che da tempo si siano viste nell’ambito di una ghost-story). L’aldilà viene poi lasciato macerare in un suo universo criptico e non è mai sfacciatamente sbandierato davanti agli occhi dello spettatore per stupirlo: sembra esserci un “pensiero”, insomma, dietro questo film, e anche dietro la sceneggiatura; pure l’idea di intrecciare la vicenda (realmente accaduta) di un giovane malato terminale a quella del confine tra vivi e mondo dei morti, possiede una sua tonalità malinconico-esistenziale che fa riflettere su un tema (quello della morte) dal quale Hollywood preferisce usualmente tenersi alla larga. Nel film di Cornwell ci troviamo, al contrario della media holliwoodyana, di fronte a un tentativo decisamente più serio di significazione creativa, di simbolizzazione enigmatica del tema della morte, attraverso il medium del genere cinematografico horror. Seguendo questa chiave di lettura non sono d’accordo con certe recensioni nettamente negative di questo film, che lo accusano di “buonismo” familistico, cogliendo solo un aspetto dello script. L’amore familiare dei Campbell viene certamente mostrato infine nella sua funzione salvifica, ma c’è un’altra famiglia nel film, quella del giovane Jonah, che lo porta alla morte senza tanti complimenti. E si tratta di una morte densa di un’angoscia così potente da incidere la pelle (come succederà anche a Matt in una scena molto evocativa). Poco da commentare circa lo staff tecnico, con un Adam Swica che sembrava più a suo agio come director of photography in Diary of the dead di George A. Romero, e un Robert J. Kral che contrappunta una colonna sonora senza infamia e senza lode. Il montaggio di Tom Elkins è un po’ lento e monocorde, se si eccettua il molto efficace passaggio alternato delle sequenze in cui il reverendo Popescu (l’ottimo Elias Koteas) vede il fantasma di Jonah sul sedile posteriore della sua automobile, mentre Matt, in un altro luogo, è alle prese con la stessa tragica visione.