Kate e John, lei musicista, lui architetto, hanno due figli, Daniel, preadolescente e Max, bambina di 5 anni sorda dalla nascita. La tragica perdita di un terzo figlio molto desiderato, ma deceduto durante il parto, spinge la coppia ad adottare un bambino. Rimangono intensamente impressionati dalla piccola Esther, incontrata all'orfanotrofio della loro città gestito da un ordine religioso. Ma quando Esther, bambina di origini russe, si trasferisce a vivere nella sua nuova famiglia, comincia a manifestarsi una serie di eventi inspiegabili quanto misteriosi, tanto da portare Kate a credere che nella bimba ci sia qualcosa di malato, e che i suoi comportamenti all’apparenza educati e compiacenti nascondano in realtà qualcosa di terribile...

Dialoghi, psicologie e atmosfera: sono questi gli ingredienti base del nuovo film del regista spagnolo Collet-Serra (La maschera di cera, 2005), cucinati a fuoco lento attraverso la messa in scena di una sceneggiatura che pur presentando qualche buco logico e qualche incongruenza, riesce comunque a infiltrare buone e giuste dosi di angoscia nell’immaginario dello spettatore. Già nell’incipit Collet-Serra sembra volerci dire ‘guardate che faccio sul serio’, aprendo le danze con un incubo della protagonista nel quale alcuni sguardi taglienti delle infermiere della sala parto bastano a farci intuire che cosa ci sarà presentato nel rimanente minutaggio. Il clima che si respira nell’incubo d’apertura richiama infatti alla mente il sottile sadismo personificato dalla giovane protagonista di Audition (1999) di Miike, o suggestioni similari, non certo rassicuranti per chi guarda. E l’aspetto più pregevole del film è che il regista spagnolo mantiene la promessa iniziale nel corso di tutto lo svolgimento diegetico: l’obiettivo della macchina da presa si muoverà sempre agevolmente e morbidamente tra campi lunghi e lente zoomate all’indietro sconfinanti in soggettive che promuovono la nostra identificazione con il punto di vista predatorio e arcigno di Esther, la tremenda e inquietante bambina adottiva, una Isabelle Fuhrman che a soli 12 anni è capace di far ruotare un’intero script intorno alle sue intense performance attoriali. I movimenti di macchina sono poi impreziositi dalle luci algide di Jeff Cutter, director of photography in perfetta sintonia con il mood angosciante che Collet-Serra ci trasmette come in un crescendo, sequenza dopo sequenza. Tornando al cast, Vera Farmiga (Kate, la mamma), interpreta il personaggio con grande naturalezza, senza cadere nelle solite trappole di certe scene gridate e isteriche, cui questo genere di film può condurre; Cch Pounder veste con realismo e umanità i panni di suor Abigail, che si renderà colpevole di aver scoperto cose inopportune sul passato di Esther, e contribuirà così a risvegliare nella bambina il devastante spirito omicida che colorerà di sangue il resto del film. Anche la piccola Max (Aryana Engineer, bimba non-udente anche nella vita reale) rimarrà subito vittima delle diaboliche manipolazioni di Esther, rivelandosi come un personaggio-chiave nell’intreccio complessivo della storia. Non mancano poi alcune belle scene gore oriented, collocate in modo armonico nel corso della narrazione (molto apprezzabile nonché disturbante, per esempio, la lenta, morbosa sequenza del braccio di Esther incastrato nella morsa di ferro). Come si vede, e come dicevamo all’inizio, psicologie dei personaggi, atmosfere e dramma conflittuale nel gruppo familiare, sono il tessuto portante di questo film, che rimastica un genere peraltro trito e ritrito (quello del “bambino demoniaco”), ma lo fa offrendo un’idea finalmente originale, nell’orizzonte delle produzioni horror contemporanee. Idea che diventa vero ribaltamento spiazzante delle “normali” aspettative dello spettatore, mediante il notevole colpo di scena orchestrato dagli sceneggiatori nel pre-finale, un coup de théatre che si propone come soluzione piuttosto nuova. E che, soprattutto, rende assolutamente ridicole le polemiche innescate da alcune associazioni statunitensi per l’adozione, che hanno accusato il regista di razzismo nei confronti di bambini adottivi non americani. Forse un po’ troppo diluito il finale vero e proprio, che poteva essere risolto con una modalità espressiva più secca, cioè in linea con l’equilibrio strutturale di tutta l’architettura filmica precedentemente costruita.