Sette amici, compagni di università, partono per un viaggio in jeep diretti in Marocco, pieni di spirito d'avventura e di voglia di divertirsi. Lungo la strada che porta verso i boschi dell'Atlante, a una ragazza del gruppo, Clarissa, viene rubata la macchina fotografica. La ragazza, raggiunto il più vicino villaggio di Al Nadir, decide di comprarne una nuova. Girando per le strade della città si imbatte in un negozio di antiquariato gestito da un misterioso signore, che le regala una vecchia instant camera Polaroid degli anni Sessanta. Una volta arrivati nel bosco, i ragazzi cominciano ad essere perseguitati da un invisibile assassino che sembra intenzionato a ucciderli tutti.

Mi piacerebbe incontrare personalmente Francesco Gasperoni per porgergli, seduti davanti a una buona birra, alcune essenziali domande. Prima di tutto gli chiederei perché ha deciso di svelare praticamente fin dall’inizio del film il mistero stesso su cui si sviluppa tutto lo script. Era necessario? Non si poteva essere più misurati nel centellinare indizi, avvolgendoli magari in un’aura più enigmatica (il che sarebbe andato a tutto vantaggio della suspense, assolutamente latitante in questo film)? Seconda domanda, più generale: mentre scriveva o girava, ha pensato Gasperoni a cosa sta succedendo attualmente nell’horror europeo, dove suoi colleghi francesi, spagnoli e inglesi (come Gens, Laugier, Sheil, Balaguerò, per citarne solo alcuni) stanno facendo rivivere una stagione d’oro al nostro genere preferito, superando in tutti gli ambiti lo stato dell’arte statunitense? Smile sembra essere un’opera che non si pone né domande specifiche di ordine tecnico come quella del primo tipo, né domande più culturali e generali, come la seconda che ho posto. Sembra essere infatti un prodotto più interessato a una seduzione visiva immediata, “usa e getta”, che a proporsi come occasione per rilanciare un cinema horror italiano in notevole crisi d’identità, il che è grave, soprattutto se pensiamo che Gasperoni si autodescrive nelle note di regia come un appassionato del genere. Ma ancor più grave è il fatto che il budget a sua disposizione è di tutto rispetto (il film è prodotto dall’Istituto Luce), senza contare poi che i collaboratori del regista non sono certo gli ultimi arrivati (pensiamo ad esempio al truccatore, Mario Michisanti, che ha prestato la sua opera in film del calibro di Le colline hanno gli occhi, Jumper, Duplicity). A fronte di questa buona occasione realizzativa che Gasperoni si trova davanti, ecco invece che l’esordiente filmaker italiano la utilizza e sviluppa in modo sbrigativo, sia sul piano di una sceneggiatura barcollante e assai poco coerente, che su quello di una resa tecnica imprecisa ai limiti dell’ingenuità. Alcune sequenze, in particolare nella prima parte del film, fanno infatti ben sperare, non fosse che il regista ne spegne subito e drasticamente le potenzialità evocative e il senso di inquietudine che sembrano voler comunicare, per passare subito ad altro, cioè concentrandosi sulla dinamica di gruppo dei litigiosi amici. Mi riferisco precisamente alla carrellata laterale in notturna nella stazione deserta (che segue il passaggio di uno dei personaggi, Geneva, interpretata da Tara Haggiag): buona atmosfera e buon sonoro, che tuttavia svaniscono in una scena irrisolta e asfittica, davanti agli occhi di uno spettatore troppo presto “sedotto e abbandonato”. Oppure penso a certe soggettive all’interno del capanno nel bosco, ben sostenute dalla fotografia fumosa e virante al verde di un Giovanni Battista Marras davvero ispirato, ma che vengono letteralmente annegate da spezzoni di dialogo del tutti inutili, cui seguono in rapida successione le brevi scene, solo larvatamente gore, di almeno due omicidi. La resa fotografica nelle scene del capanno è notevole, al punto da ricordare certe sequenze di Un tranquillo week-end di paura di John Boorman (1972), ma anche in questo caso tutto il pathos svanisce velocemente, per cedere il posto a uno sviluppo narrativo troppo lineare, “spiegato” e scontato. Per tacere del finale, sul quale la sceneggiatura, già di per sé fragile come una rete da pescatore d’acqua dolce, si sfrangia completamente buttando a mare tutto il film come il famoso “bambino con l’acqua sporca”. Una vera delusione quest’opera prima, in particolare se pensiamo alla fatica di certi registi indipendenti che non hanno la possibilità di essere finanziati e sostenuti come è successo a Gasperoni (il film ha addirittura ricevuto il patrocinio dal Ministero dei Beni Culturali italiano!), ma che forse avrebbero elaborato un’opera maggiormente convincente e con qualche brivido horror in più.