Ben Carson (Kiefer Sutherland) è un ex poliziotto di New York cha sta faticosamente uscendo dal vizio dell’alcool per aver ucciso involontariamente un agente in borghese. Ha una moglie (Paula Patton) e due bambini dai quali si è allontanato a causa dei suoi problemi, e al momento vive sul divano, a casa di sua sorella Angela (Amy Smart). La sua vita sembra migliorare nel momento in cui trova lavoro come guardiano notturno presso il Mayflower, ex-centro commerciale distrutto da un incendio scoppiato cinque anni prima. Se a prima vista il suo lavoro sarebbe dovuto essere tranquillo, in realtà si trasformerà in un vero incubo. Il precedente guardiano si è suicidato in circostanze poco chiare. Carson comprende che dietro quel suicidio ci sia qualcosa di soprannaturale, che l’ex-poliziotto, rimessosi nei panni del detective, si propone di andare per il bene della sua famiglia. Negli specchi del fatiscente edificio si nascondono infatti misteriosi demoni, una minaccia mortale per Carson e per i suoi cari. Per liberarsi da questa maledizione Carson dovrà scavare nel passato del cupo palazzo e di coloro che al suo interno hanno perso la vita, o per meglio dire, la loro anima.

Il mito dello specchio attraversa la storia dell’umanità in tutte le sue culture, ed è sempre stato posto simbolicamente in relazione diretta con le parti più enigmatiche, oscure, spaventose e distruttive dell’identità dell’uomo. Non stupisce quindi che anche la storia del cinema horror abbia attinto a piene mani dall'immaginario a esso legato. Citerò solo due casi: Into the mirror (“Geoul Sokeuro” del coreano Shung-Ho Kim), e Mirror. Chi vive in quello specchio?, di Ulli Lommel, diventato poi, forse un po’ immeritatamente, un cult. Il regista francese Alexander Aja, nel mettere mano al remake del primo dei due film citati, si trova a dover affrontare (non si sa quanto consapevolmente, ci verrebbe da dire) tutto il peso del simbolismo dello specchio, quanto meno il peso che gli deriva dalla cinematografia precedente. La domanda che mi sembra giusto porre è quindi la seguente: riesce Aja ad integrare in modo innovativo un tema così denso, ambiguo e proteiforme? Verrebbe sicuramente facile rispondere dicendo che Fritz Lang ci sarebbe riuscito probabilmente meglio, ma se lasciamo da parte l’ironia, possiamo dire che l’impegno di Aja nel manovrare un materiale filmico con un’eredità così complessa alle spalle, è comunque pregevole. Sì, ma quanta fatica! Aja ce la mette tutta a tenere la macchina sulla strada, ma gli sbandamenti non sono pochi. E soprattutto direi che il vero problema di questo film è che il nostro francese non riesce a sganciarsi dalla dipendenza dalla cifra stilistica dei suoi predecessori. Sembra quasi più interessato alla reverenza omaggiante nei confronti dei padri, che verso l’invenzione di un messaggio nuovo per gli spettatori del presente e del futuro. Molte sono infatti le immagini, le inquadrature e le soggettive che sanno di deja-vù. Ma andiamo con ordine.

La simbolica della specularità e del suo enigma invade fin dalle prime inquadrature tutto il film: belle le immagini di Manhattan ripresa con ossessività nel riflesso di se stessa, con la statua della Libertà che si tuffa nel suo riflesso quasi scomparendo. Ma è una simbolica la cui ricchezza sembra a tratti sfuggire ad Aja, molto più interessato, come dicevamo, a costruire un mosaico di citazioni. La stessa idea del guardiano notturno nell’edificio vuoto e abbandonato, fa subito venire in mente l’Overlook Hotel di Kubrick, così come le inquadrature che sorvolano i boschi autunnali nella scena in cui Carson si sposta in Pennsylvania a cercare la famiglia di Anna Essecker: sono immagini non molto lontane da quelle iniziali, memorabili, di Shining. Allo stesso modo, il ricorso alla religione e ai suoi ministri, non può non ricordare il modello di L’esorcista, con tutto il suo corredo di trasmigrazioni demoniache da corpo in corpo. Certo, dal punto di vista registico questo mosaico è cucito con sapienza, sebbene la sceneggiatura evidenzi qua e là buchi, soprattutto nel posizionamento di alcuni personaggi, che non si integrano appieno nella costruzione del plot (penso all’amico poliziotto che aiuta Carson nella sua infernale indagine, oppure alla famiglia di Anna Esseker, oppure ad Anna Essecker stessa). Il clima generale che Aja ci trasmette è comunque claustrofobico e cupo, pessimistico nei confronti della presenza e della invincibilità del Male, e questo messaggio è interessante anche perché associato a luoghi-simbolo della società occidentale, come il grande magazzino distrutto dalle fiamme. Un ambiente falsamente aggregativo per gli umani, un luogo di pseudo-opulenza e benessere dove si annida la distruzione e la morte. Un Aja più “filosofico” che “splatter” quindi, si potrebbe dire, forse vittima lui stesso di ciò che sta dietro lo specchio-macchina da presa: il passato, la galleria degli avi che lo guardano e giudicano la sua competenza cinematografica; un pesante fardello che schiaccia un po’ troppo anche le trovate più interessanti e personali del regista, tra le quali segnaliamo la bellissima scena (naturalmente allo specchio) della sorella di Carson orrendamente mutilata dalla sua immagine speculare. Oppure la breve ma intensissima scena in cui Ben Carson osserva la sua immagine deformata nello specchio del bagno di casa sua. Si tratta di piccole ma importanti intuizioni sulle quali Aja avrebbe dovuto lavorare e che avrebbe dovuto espandere maggiormente, piuttosto che farsi attrarre dall’inutile se non dannoso magnetismo del “già visto”. Su questa linea vanno guardate anche le scene acquatiche che scorrono nella parte finale del film, nelle quali il regista avrebbe sicuramente potuto spendersi con più creatività, considerata la ricchezza interpretativa che l’elemento acqua può fornire. Decisamente ottimo il finale, che irradia un alone di inquietudine, una sorta di catarsi in negativo che sorprende e solleva lo spettatore, che comunque desiderava vedere un film horror e non una riflessione metacinematografica o antropologica su un cinema “allo specchio” che si fa testimone sui luoghi della decadenza del postmoderno.