New York. Un gruppo di amici organizza una festa a sorpresa per il giovane Rob. Nel bel mezzo del divertimento, un'esplosione fa tremare tutto: un mostro colossale sta distruggendo la città.

Per Rob e gli altri inizia una lunga fuga verso la salvezza, mentre l'amico Hud documenta l'orrore con un camcorder.

Ci sono rari casi in cui, quando le luci si accendono in sala, si ha la consapevolezza di non aver visto un film come gli altri. Ci si accorge con piacere di aver assistito a un evento fondamentale, a un titolo destinato a dividere il pubblico, a generare dibattiti e riflessioni sull'essenza stessa del linguaggio cinematografico. E questo piacere è ancora maggiore quando una pellicola di questo tipo appartiene a un genere a noi caro.

Tra remake annoiati e interminabili franchise, il caro vecchio horror, da sempre genere cinematografico "di rottura", testa di ponte delle avanguardie e del cinema sovversivo e sperimentatore, negli ultimi vent'anni sembrava aver esaurito ogni idea originale, annegando in una palude di intollerabili cliché.

Il pubblico si era abituato a personaggi privi di spessore, sceneggiature deboli, cheap scares e battute di spirito. Un processo degenerativo che aveva quasi finito per identificare l'horror come un genere per adolescenti: cinema di cassetta buono per il sabato pomeriggio, da consumare affondando una mano nella confezione di pop corn e l'altra tra le cosce della fidanzatina.

Eccetto sporadici - ma pregevoli - esempi provenienti da oltralpe, l'horror sembrava aver dimenticato la propria identità: quella di essere un genere cinematografico nato per rappresentare la paura.

Cloverfield ha rimesso tutto in discussione, dimostrando quanto fossero errate le nostre illazioni.

La particolare tecnica di ripresa da videogame first person shooter e i riferimenti catastrofici all'America post 9/11 hanno fatto gridare da più parti al degno erede di Blair Witch Project (1999), al film-manifesto di una web-generation voyeuristica e narcisista.

Questa convinzione è stata rafforzata dall'intelligente promozione, basata su una perfetta strategia di viral marketing, un buzz assordante su forum e gruppi di discussione, con spoiler e anticipazioni centellinati a regola d'arte.

Tutto vero. Ma ci piacerebbe anche proporre un'altra chiave di lettura, più ovvia, più provocatoria e forse proprio per questo poco esplorata.

Vogliamo sostenere, infatti, che Cloverfield non abbia inventato nulla di nuovo, e che abbia un debito assai più forte verso i grandi classici del cinema (non solo horror e fantascienza) che verso gli esperimenti visivi di Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez.

Il nostro ragionamento non può prescindere da una rapida analisi tecnica. E bastano pochi minuti di proiezione per razionalizzare quanto abbiamo anticipato.

Il tanto chiacchierato taglio amatoriale delle inquadrature è semplice fumo negli occhi, una colossale burla per solleticare l'appetito degli spettatori in cerca di qualcosa di nuovo.

I numerosi jump-cut sono gli unici espedienti che cercano di farci credere che stiamo osservando una vera Mini-DV. Come quelle che potremmo girare noi stessi - e magari da condividere su Youtube.

In realtà, basta uno sguardo più attento per cogliere dettagli (profondità di campo e ricchezza cromatica) irraggiungibili con un camcorder qualunque. Cloverfield è stato girato in alta definizione con cineprese digitali Cinealta e Viper (già utilizzate per la nuova serie Star Wars o in Superman returns).

Ogni scena nasconde uno studio maniacale della composizione dell'inquadratura, ottenibile solo grazie a un duro lavoro sulla prossemica degli attori e a una pianificazione meticolosa.

Il geniale operatore di Cloverfield è Robert Reed Altman, figlio del grande regista Robert Altman. Con il suo lavoro, il camera department è riuscito in un'impresa difficilissima: raggiungere un'idea di improvvisazione e casualità attraverso inquadrature pensate a tavolino.

Il regista Matt Reeves ha girato un film a basso costo (per gli standard USA) con il look di un kolossal, grazie anche a un ottimo sonoro e agli spettacolari effetti speciali sapientemente dosati.

Così, Cloverfield è un film di straordinaria fattura. Tuttavia, sarebbe ozioso osannare una pellicola solo per la sua realizzazione tecnica.

Quel che è importante, è che in appena 85 minuti Cloverfield butta nell'immondizia vent'anni e passa di cinema di horror, segnando un nuovo inizio per il genere.

Cloverfield è un autentico capolavoro che nasce da una sceneggiatura semplice, dai dialoghi spontanei e ben scritti, dalle robuste prove di attori poco conosciuti (su tutti Michael Stahl-David).

Questa pellicola mostra con rara efficacia la paura primordiale che si prova di fronte a un pericolo ignoto. Cloverfield offre una tensione costante e palpabile, ed è uno dei più spaventosi film del genere dai tempi di Alien (1979).

A ricordarcelo, tra le altre scene, ci sono le terrificanti sequenze di panico collettivo, l'inseguimento nel tunnel buio della metropolitana, o l'indimenticabile salvataggio al cinquantesimo piano di un grattacielo.

Cloverfield ha anche il pregio di riportare in auge il monster movie in modo assai più efficace di ottimi predecessori come il coreano Host.

Insicurezza, paranoia e senso di imminente catastrofe, tanto ben rappresentati dagli orridi mostri del cinema USA all'epoca del maccartismo, sono gli stessi dei nostri tempi.

Cloverfield reinterpreta così i temi cari a vecchi classici come Godzilla (1954) o Tarantula (1955). Il monster movie viene corteggiato e omaggiato in continuazione: mostri invincibili, città rase al suolo, scienziati impotenti, divisioni corazzate che soccombono alla mostruosa minaccia.

I mostri sanno interpretare lo spirito dei tempi assai più dei killer protagonisti in strombazzati pasticci come la franchise di Hostel o Halloween.

"Qualsiasi cosa sia, sta vincendo" è la battuta, lapidaria come un aforisma, che dà la chiave di lettura di tutto il film.

Il pericolo è così grande e invincibile che nulla può salvarci.

Fondamentale anche il modo con cui sono affrontati questi temi. La "cinepresa a mano", ripetiamo, è solo un diversivo.

Cloverfield non è un vero film in soggettiva. Esperimenti del genere sono già stati effettuati in grandi classici del noir come La donna del lago (1947) o in alcune sequenze di Peeping Tom (1960).

Cloverfield è piuttosto un film fatto di piccoli, meticolosi piani sequenza, ed è imparentato più con Nodo alla gola (1948) che con Strange Days (1995). Il long shot è il tipo di inquadratura più voyeuristico, perché ci dà il piacere di spiare senza essere coinvolti.

E infatti il personaggio del cameraman, l'ottuso Hud, è quasi del tutto passivo. Non gioca un ruolo chiave nello svolgimento della narrazione. Anche se interagisce con i personaggi, ma non prende mai una decisione fondamentale, né ha il potere di cambiare gli eventi.

Hud è il pubblico.

Hud subisce la storia insieme agli spettatori, e ne condivide l'ossessiva voglia di vedere e capire ogni cosa.

Hud è una semplice voce di campo che si pone gli stessi interrogativi che serpeggiano in sala. "Da dove viene il mostro?" "Come si può sconfiggere?". Quesiti che non avranno mai una soluzione.

Questa assenza di risposte è fondamentale per l'economia e l'efficacia della narrazione.

"Un mostro alto 100 metri sta distruggendo New York". A cosa servirebbe aggiungere altro per far progredire la storia?

In Cloverfield non c'è un Dennis Hopper in camice bianco che sbuca da un laboratorio a spiegarci per filo e per segno da dove viene il mostro. Non c'è il deus ex machina che arriva all'ultimo momento per salvare la Terra.

L'operazione è così radicale da confondere lo spettatore assuefatto - purtroppo - a un certo tipo di cinema, incapace di orientarsi nella narrazione senza infodump e cliché narrativi.

Cloverfield è un film che fa tabula rasa di ogni horror girato finora.

Ha saputo rinnovare un genere semplicemente attenendosi alla vecchia regola del "less is more", dando una sonora lezione a chi crede ancora che servano un film di tre ore e investimenti colossali per incollare lo spettatore alla poltrona.

È una semplice storia che chiede semplicemente di essere vista.

In tre parole, è grande cinema.