In nome di quale inimmaginabile logica, umana o diabolica, si spiegava che lui fosse stato scelto per quell'esperienza? Continuava a esistere dopo la morte. E con ciò? Era bastato solo un piccolo passo per andare oltre il confine ed egli era stato per tutta la vita già per metà fuori dal suo corpo. Non avrebbe potuto esserci nulla di violento nel distacco.

Ma no, un destino del genere era troppo orrendo. Mille volte meglio la conso­lazione d'una morte violenta che la condanna all'eterno oblio, che essere vittima dei sogni tanto amati.

Si mosse per scrollarsi di dosso quei pensieri. Ritrovare il deserto della sua vita di sofferenza lo riempì di coraggio e furore, e lo fece gridare. Per tutto il suo tempo era stato vittima della fantasia, e la fantasia veniva ora a rubargli la poca esistenza che gli rimaneva.

Se era venuto il suo momento, che se ne andasse, ma prima doveva scrivere dell'orrore vero, cercato per tutta la vita e che poteva essere trovato solo al di là di essa; del terrore descritto nei salmi e sperimentato da molti profeti e santi; il pani­co folle e abietto, apparentemente senza causa.

Dalle forma! Dalle forma!

Come poteva la voce, nella totale assenza di vita, risuonare con tanta insisten­za? Rintronava nelle orecchie con irresistibile intensità, lontana, eppure perfetta­mente udibile, vicina e pure così attutita.

Perché non imporre un nome alla paura? Perché le fragili creature immerse nel sonno dovevano essere protette a ogni costo da ciò che esisteva oltre la vita? Perché era stato prescelto per vedere ciò che aveva visto?

Non conoscere le risposte faceva parte della sensazione di vita, del cambia­mento. Vita e morte.

Ma egli aveva visto. Un altro non avrebbe saputo denunciare l'orrore così da sconfiggerlo. Lui invece, unico spettatore, aveva i mezzi per dare forma all'incu­bo. Lui eletto vittima di quell'atroce iniziazione.

Il rumore di passi ingigantì.

Domani, nella stanza d'ospedale, sarebbe giaciuta una forma d'argilla, e se qualcuno avesse sollevato il lenzuolo dal viso di quella cosa, sarebbe stato solo per soddisfare una curiosità morbosa. Forse altri sarebbero andati oltre e avrebbe­ro chiesto: "Chi è?".

Seduto sul bordo di una tomba, con la speranza di cogliere qualche parola della conversazione dei morti; rannicchiato in una buca profonda nel terreno, in­tento a contare le stelle, Lovecraft si sarebbe trovato da qualunque parte, ma non dove stava il resto del mondo.

Doveva scrivere ciò che provava. L'avvelenava e l'inferociva pensare di la­sciare qualcosa in sospeso, ma era inutile cercare di sfuggire all'ineluttabilità del destino.

Si voltò.

La cosa era già su di lui.

Subentrò una specie di torpore dell'anima, di benessere sonnolento. Era una sofferenza sopportabile.

Il mondo incombeva ovunque, fuori e dentro. Lentamente, Lovecraft si spense come si spengono i lumi.

Il medico di turno quella notte stilò il certificato di morte: Howard Phillips Lovecraft era deceduto alle prime ore del mattino del 15 marzo 1937 per un cancro all'intestino complicato da una forma di nefrite, ma il giovane neolaureato non confessò ad alcuno quanto fu spaventoso vedere quel miserabi­le ansimare, parlare a singulti, spalancare la bocca per sussurrare parole appena percettibili, e rantolare, e agitare sotto le coperte, le magre gambe come se avesse voluto fuggire.