Si volse, guardò il viale buio che conduceva all'ospedale. Non scorse nulla.

Doveva mettere alla prova il proprio equilibrio mentale e tornare sui suoi passi? Girò nuovamente sui tacchi e corse lungo la strada verso casa.

C'era una forza che lo spingeva, un bisogno di fuggire. Forse era sciocco avere paura, ma l'orrore non aveva cervello: era stupido. Lui lo conosceva bene, le tetre testimonianze che produceva e il vile consiglio che sussurrava non aveva­no legami.

Qualche volta la capacità di provare paura era soppressa, la legge sospesa: l'incantesimo poteva rompersi con il potere imperituro dell'amore o dell'odio. Ma egli non aveva alcuna volontà di spezzare la malia. Provare paura era vitale. Puerile era invece credere nella realtà, quando ciascuno di noi se la portava con sé, nei propri pensieri e nei propri sensi. La mente prendeva istruzioni dagli occhi, dagli orecchi e giudicava, comprendeva, analizzava come se ciascuno di noi ap­partenesse a una razza diversa.

Dalle forma!

Risuonò imperiosa la voce.

Quante volte l'aveva udita nelle lunghe ore di meditazione, con l'attenzione concentrata intorno a un rigo, una frase, interamente assorto da un'ombra obliqua proiettata sui damaschi.

Amava la solitudine perché dentro di sé, lasciando sciolta la briglia dell'immaginazione, poteva ricordare mondi fantastici abitati da bizzarre e spie­tate creature, figlie dei suoi deliri e illusioni di scrittore; perché Lovecraft era uno scrittore che mai s'era sentito soddisfatto delle forme nelle quali poteva racchiu­dere i suoi incubi, e mai, in tutta la sua vita, li aveva racchiusi nello scriverli.

Amava la solitudine a tal punto che a volte avrebbe desiderato non avere più ombra, in modo che questa non lo seguisse dappertutto, ma non avrebbe mai potuto affermare d'essere stato realmente solo. La voce era sempre stata acquattata fra i pensieri.

Un po' alla volta, camminando, il tumulto del suo animo si calmò; l'impulso alla fuga ancora lo spingeva avanti, ma egli cominciava a provare la sensazione che il terrore da cui s'allontanava era stato creato da lui stesso.

Nulla attorno a lui recava traccia di ciò che era accaduto nella stanza da cui era fuggito, e standosene lì gli parve di ritrovare l'oblio e la sicurezza; ma fu solo per un istante, perché quando abbassò le palpebre ricomparve la visione, stampata sulle pupille, per sempre parte di lui, incancellabile orrore marchiato a fuoco nel suo corpo e nel suo cervello.

Di tanto in tanto si fermava, ansimando, a guardare indietro. II gesto gli dava sollievo, in primo luogo perché volgeva la schiena al vento, e poi perché nulla scorgeva in fondo alla strada. Ma gli arbusti, scheletri vegetali, avevano l'aria d'indicare vagamente con le punte dei loro rami la direzione alle sue spalle, ed egli poteva sempre udire il rumore di passi.

Non poteva vederla, ma era dietro di lui. Pensò che se si fosse fermato, la cosa l'avrebbe azzannato.

Non aveva mai visto Providence così deserta, così morta. Macchie biancastre vagolavano per la strada, dilatandosi e rimpicciolendosi. I lumi erano spenti, ma l'alba era ancora lontana dallo spuntare, molto lontana. Perché i lumi erano spen­ti?

Un cane uggiolò.

Vide un gentiluomo che procedeva a lenti passi e un impulso l'indusse a rivol­gergli la parola.

-Aiuto! Aiuto! - gridò e ripeté più volte.

Il disperato richiamo rimase senza risposta. Il volto dell'uomo aveva il colore del tempo, lo sguardo senza pensiero perso oltre: di sicuro doveva essere colpito da una sorta d'ebetismo.

Lovecraft riprese a correre. Gli sembrò di proseguire da un tempo infinito, perché le gambe si piegavano e il petto ansimava.

Pensò di stare ancora sognando.

Dalle forma.

Stava fuggendo da ciò che aveva rincorso per tutta la vita: il puro terror pani­co.

L'impulso d'obbedire ebbe il potere di scrollargli di dosso la nebbia che gl'in­torpidiva i sensi.

Subentrò una nuova paura, quella di non riuscire nell'intento di descrivere l'ignoto. Aveva paura della paura, del turbamento del suo pensiero, della ragione che fuggiva sconvolta, dispersa da una misteriosa e irresistibile angoscia.

La paura vera era un tale abisso di negativi, un'assenza così completa di tutto. Molti prima di lui avevano cercato di plasmarla. I più s'erano limitati a incre­spare la superficie del fiume dell'oblio, lasciandolo intatto. Altri, pochi per amor di verità e con nomi quali Poe e Hoffman, avevano fatto emergere qualcosa di torbido e inesprimibile dal fondo limaccioso, qualcosa che aveva cercato di pene­trarli, di afferrarli. Ma a loro era mancato il coraggio di descrivere l'ignoto sul quale, incautamente, avevano gettato lo sguardo.