Sulla torretta si sta un meglio. Non c’è paragone. Tira un filo di aria in più e la tettoia fa ombra, ma ogni roba metallica produce caldo: distintivo, lamiera, reticolato e – naturalmente – i calibro 12 a pompa d’ordinanza. Nicò mi fa la solita domanda: «Come cazzo faranno con 'sto caldo?» Non sentono niente. Sono braccianti. Allora parte col suo solito gioco: Chi assomiglia a chi. Così, per ammazzare il tempo, che è già morto di suo. «Oh, ma quello non ti sembra Pippo Baudo?» Non saprei. Forse sì, ma a fine carriera.

Il reticolato delimita una specie di arido campo da calcio. Dentro una ventina di braccianti: uomini, donne, persino bambini. Pelle grigia, bruciata dal sole, abrasioni. Abiti strappati. Denti marci e spaccati. Occhi infossati, vitrei. Zappano in silenzio. Ogni tanto un grugnito o qualcuno che si aggrappa alla rete per mordere. Allora si prende il calcio del fucile in faccia o qualche proiettile nel torace. Così, di avvertimento. Gli scassaminchia veri se lo beccano in fronte invece. Tanto nel loro mestiere c’è parecchia mobilità, ricambio. Infatti l’unico skill richiesto loro è essere morti. 

A pranzo reggo io il catino mentre camminiamo lungo la rete, perché Nicò è sciancato. Butta dall’altra parte avanzi di macelleria, carcasse di animali randagi raccattati dalla strada o che crivelliamo noi di pallottole quando proprio ci rompiamo il cazzo durante il turno. I braccianti si accalcano. Allora – tanto per cambiare – giù calci, mazzate e anche sputi attraverso la rete che si agita come una molla. «Oggi l'agenzia manda le lettere. Ci dimezzano.» mi fa Nicò. «Non possono, se no quelli che restano si trovano turno doppio, si stancano e poi scoppia il casino» «Possono – insiste Nicò – e quello che deve stare più preoccupato sono proprio io, che ho più anni, la gamba gnogna e una famiglia sulle spalle».

La lettera Nicò se la trova nell’armadietto dello spogliatoio. Io sono salvo, ma dalla rabbia scasso il mio a pugni. «Stai buono, che ti metti nei cazzi pure tu» mi fa lui, ma non è giusto. Nicò ha quarant’anni. Ex attaccante nel Fidelis Andria e in nazionale. Dopo l’infortunio ha trovato lavoro solo come sorvegliante. Come me, che sono il più stalentato del tavoliere. 

Lo riporto a casa. In macchina si sfoga. «C’era da aspettarselo, no? 'sto campo non serve a un cazzo. A Peschici fanno il triplo, perché sono vicini al cimitero. Risparmiano trasporti. Se non rendi, vieni accorpato e saltano subito i vecchi storpi come me. C’è crisi. Fossi imprenditore io, farei la stessa cosa. Quando mi mandavano in panchina, m’incazzavo, ma l'allenatore aveva ragione: pensavo solo a me, non alla squadra» Ragionamento del cazzo. E al figlio? A quello non pensa? «Tutto quello che ho fatto è per il suo futuro. E adesso lo vedi un futuro?» Non saprei. Vedo solo cani che si contendono un osso già spolpato. I braccianti non li licenzi, li abbatti. Non sentono caldo, né fatica. Non hanno sindacati. Non hanno diritti, desideri, famiglie da portare in ferie. Lavoratori perfetti. Il futuro è loro. Parcheggio davanti al trullo di Nicò. Il bambino gioca a palla contro il muro. Gli dico di allenarsi bene che poi va in nazionale come suo padre. Nicò m’invita per il caffè dopo cena, fissando allusivo il mio calibro 12. Non posso farlo. Mi sorride: «Guarda che è tutt’appò.» 

Il mattino dopo un collega sotto shock mi racconta che Nicò ha ammazzato moglie e figlio. Prima di spararsi al cuore, ha chiamato direttamente l’agenzia, che ha mandato subito il furgoncino e se li è caricati. 

Cammino lungo la rete trattenendo le lacrime, ma prendo coraggio e alzo lo sguardo. Vedo Nicò, la moglie e il bambino. Torace squarciato. Provo a chiamarlo. Niente. Continua zappare come tutti gli altri braccianti. Grugnisce qualcosa di incomprensibile. Il bambino zappa diligente e ripetitivo come faceva col pallone contro il muro solo ieri sera. A fine turno torno al trullo di Nicò. Tutto spalancato. Sigilli della polizia. Sangue. Intorno solo caldo, terra a perdita d’occhio e silenzio. A parte le cicale. Raccolgo il pallone del bambino.

Torno al campo, davanti al reticolato col pallone sotto il braccio. Vedo il bambino, preparo la rimessa e urlo: «Palla!» SPAFF! Cade proprio davanti a lui. Smette di zappare. Tocca il pallone con la punta del piede, tira qualche timido calcetto. Le zappe si fermano e tutti i braccianti si riuniscono intorno al bambino. Li incito. Con passaggi lenti e goffi, i corpi malridotti iniziano una rudimentale partita. I colleghi non hanno il coraggio di interrompere. Sono troppo curiosi. Si avvicinano sempre di più alla rete per vedere come va a finire e poco dopo siamo tutti lì insieme a tifare. A gioire sinceramente come si faceva una volta in quello stadio, quando faceva ancora lo stadio. Perché il futuro è loro. È dei braccianti.