Domeniche balcaniche, Ilaria le chiamava: chissà se poi balcaniche; e però suonava bene.

La musica fluttuava sull’altra sponda del fiume. Violini, fisarmoniche, una voce femminile; gli ottoni, i tamburelli, una base registrata. Gli stereo crepitavano sui teli e le tovaglie, lucevano metallici tra i fili di erba alta. I rom erano curvi sui tronchi e gli sgabelli, gettavano le lenze in quell’acqua verde fango. Ronzii di mulinelli, i ragazzi parlottavano, flettevano le canne, lanciavano: di nuovo. Gli adulti erano scalzi seduti sotto gli alberi, le frasche di sambuco ondeggiavano nel vento. Graticole, bottiglie, la carbonella che scoppiettava; il grasso odore delle salsicce e il pane fresco tagliato a fette. Gli schiocchi di turaccioli, i gloglotti di lattine, gli scintillii di coltelli al sole e medagliette e collane d’oro. Tutti gli uomini con il cappello, le gonne lacere delle donne. Quei maglioni striminziti con i gomiti bucati. I loro sandali sui sassi piatti nell’argilla e il limo freddo. Si raccoglievano a quella riva, che è la meno frequentata, al lato opposto di una ciclabile di passeggini, famiglie e pattini.

Ogni domenica, se c’era il sole.

Per pescare, cucinare; ma anche farsi i cazzi loro. Non danno noie. Non ho problemi. Le lamentele della città. Tanti mugugni ché sono zingari ma mai fastidi a nessuno mai. Vivono chiusi in un loro mondo. La gente è stronza però, è razzista.

Ilaria accelerò la passeggiata sulla pista, che in quel tratto si abbassava a uno scavalco di ferrovia che spezzava il fiume verde in una breve e schiumosa rapida. I piloni erano accessi di graffiti rossi e rosa, verde acido e arancione su un uniforme fondale nero. Il tarassaco infestava gli interstizi tra i mattoni, si arrampicava alle gabbie scure e i binari e traversine.

Un treno urlò lontano sui tetti bianchi dei condomini, le auto, la statale, la banca, un supermarket: che ad appena cento metri scomparivano tra i pioppi. Gli sterpi. In un canneto. Sui sentieri limacciosi. Tra quei salici contorti che affondavano nell’acqua.

Bottiglie che cozzavano. O qualcuno che strillava. Quelle vocali allungate e sbronze e parole liquefatte. Risate, un ululato. Una ressa su uno scoglio.

Lei sentì i fuseaux più aderenti sul sedere, il top più stretto al seno, la pelle più sudata; sentì i capelli tirarle troppo, pensò di scioglierli sulle spalle.

Sulle spalle, sulla schiena, sulle natiche e poi no. Soffrì il pensiero – la sensazione – di una mano sulla bocca. Di una stretta attorno al collo, di una mano sulle cosce. Sulla pancia e tra le cosce. Pensò a sguardi appiccicosi. Soffocò d’aliti, di respiri.

Non danno noie. Non ho problemi.

Sbirciò ai rom immobili sulla riva con gli occhi fissi nei cerchi d’acqua, le esche, nelle bolle; i guizzi, gli ami, i pesci, le increspature di superficie; che si aggrottavano e corrucciavano per i retini e le reti vuote; solo assorti e istupiditi dalle astuzie delle anguille. Che si infoiavano per i pesci. Solo i pesci. Per i pesci. Guardò i vecchi su una stuoia: gli occhi vuoti, sigarette.

Accarezzavano i loro cani; si inabissavano in discorsi lunghi, in parole scorticate; si ischeletrivano di silenzi e annuivano penosi.

Si sentì stupida, inconsistente. Non ti hanno dato fastidio mai.

Camminò un po’ più veloce.

«Bionda bella!»

E ti pareva?

«Bionda bella! Bionda bella!»

Ma a chiamarla e inseguirla era solo una bimba.

Volto oliva, gli occhi neri, quei capelli già ingrigiti; i pochi denti di quel sorriso e tutta nuda fuorché il golfino. Cinque bottoni cuciti male su un cotone giallo e sporco; il corallo e i braccialetti attorno ai polsi, il collo e le caviglie.

Molto piccola – sei anni? Meno, forse; è un po’ paffuta; le labbra lucide di birra e olio dalle grigliate dei genitori. Non si dovrebbe. Chi glielo dice? Vacci tu, a rimproverarli.

La bimba attraversò l’acqua bassa sotto il ponte, le venne accanto, insistette: «bella!», la meraviglia nelle pupille. Le saltò attorno, le inciampò attorno, drizzò la schiena, drizzò il sedere. Alzò il mento, scosse il capo:

«Bella!»

Quindi anch’io faccio così?

«Grazie, grazie», lei sorrise. Ma tirò dritto: si stancherà.

La bimba zingara non la mollava.

Le stette dietro correndo, ansando, per un tratto mica male. Già due curve, a passo svelto. Tu fai footing, zingarella? Ha anche rotto un po' i coglioni.

«Non va bene, ascolta: ferma», disse Ilaria più severa. Si accucciò a guardala in viso, «devi tornare dalla tua mamma. Mi capisci? Dalla mamma. Dov’è tua mamma?»

Ce l’hai, la mamma?

Scacciò il pensiero. Si sentì inquieta. Quanta strada ho già percorso? Due curve sole, ma è già abbastanza; le nascondevano la ferrovia. La ciclabile deviava dal corso cupo del fiume, che in quel tratto si abbassava, tra i cespugli anche più fitti, per tacere e scomparire dietro i carice fluttuanti. A un orizzonte di piante alte le apparirono cisterne, le lamiere, i tetti curvi.

La solitudine.

Calò il silenzio.

Un vento freddo fischiò tra i rami.

Nubi grigie si ingrossarono sulle fabbriche fallite che sprofondavano nella campagna a uno sguardo di distanza. Il selvatico inghiottiva le recinzioni cadute in pezzi. Vetri infranti, fil di ferro, travi metalliche arrugginite, l’inesorabile proliferare delle ortiche e margherite. Le lucertole, le mosche, i ronzii dei calabroni. A un altro passo sulla ciclabile la città sembrò svanire.

L’aria pesante puzzò di polvere, di azoto: pioverà.

Ad appena una corsetta, sulla destra, un’altra svolta, una sterrata tornava a scendere tra i palazzi e in mezzo al traffico.

Brusii nel cielo. Un azzurro cupo. Pioverà. Sono sudata.

Pensò a sbrigarsi, rientrare subito; non voglio prendermi un acquazzone.

La bimba zingara si guardò attorno smarrita. Le dita in bocca, la pelle d’oca. Quei piedi sporchi. Rabbrividì.

«Cazzo, dài», decise Ilaria: non la poteva lasciare sola. Devo portarla dai genitori. Tornare indietro. La cercheranno. Vedrò suo padre venirmi incontro. Vedrò sua madre. Con un coltello. Spaventati, inferociti. Il suo branco di fratelli. Non ho problemi. Non danno noie. Vorranno uccidermi. Li capirei.

Non si sentivano neppure i merci che si incrociavano sui binari. Niente uccelli, niente insetti. L’eco lontana di un abbaiare.

La strinse a un polso, le disse «vieni»: la bambina la calciò. La morse forte, perlamadonna! Corse a tuffarsi nell’erba alta.

Scomparve in un fruscio.

«Bimba! Bimba!», lei chiamò: dài, non mettermi nei cazzi; la vide correre da un cespuglio dentro un gomitolo di rami bruni, la vide scivolare nell’argilla sulla riva.

Udì sbattere, sguazzare, la schifò un puzzo di fogna; di pelle cotta, un olezzo umano, di pavimento di pescheria.

Che cosa c’entra, a che cazzo penso; ma quella immagine la impietrì.

Di cartilagine, di filamenti, teste di pesce strappate via. Canocchie vive si attorcigliarono nei suoi ricordi infantili, sangue rosso e inchiostro nero su ceramiche pulite.

Restò ferma sulla pista; «dài, bambina», balbettò.

Sentì schiacciare, pestare, rompere, uno strappo e un crepitio. Sentì un tonfo, ma pesante; ahi, dev’essere caduta.

La sentì gemere.

Ma in modo strano.

C’era qualcuno, nel fango folto.

Tra le foglie scorse un gomito, un ginocchio, quel grumo ruvido: carnicino. Si piegò in modo sbagliato, disgustoso, si rapprese e si fletté. La pelle pallida, riflessi verdi. Le sembrò fosse una schiena. Un guaito, un ansimare, un singhiozzo e strofinii.

«Mi hai sentito?», strillò Ilaria.

Si morse subito le labbra, bianche.

La bambina uscì carponi dal groviglio delle piante. Si alzò in piedi. Barcollò.

Con il golfino tagliato. Foglie secche tra i capelli. O appiccicate alla pelle madida. Segni scuri in tutto il corpo: bolle, forse, irritazioni; la sensazione di bocche piccole che la avessero tutta morsa, che la avessero succhiata.

La macchia rossa sul ventre, il pube, il sangue e quegli umori che le colavano sulle gambe.

Zitta. Inespressiva.

A lei mancò la voce.

Sfilò il telefono dalla cintura, aprì la fotocamera. Al massimo ingrandimento: e adesso esci, stronzo, vieni fuori. Ti vedo in faccia, ti inculo, merda. Puntò alla riva, tra quei fruscii; e vado subito a denunciarti.

«Adeliana! Adeliana!»

L’anziana zingara apparve lenta e accalorata sulla pista: occhi al cielo, fiato corto, troppe rughe di pazienza; quel tono irato però affettuoso per i capricci dei ragazzini. Batté l’asfalto con il bastone, batté i piedi incalzettati, gridò un rimprovero di consonanti ché la bambina accorresse «subito». Lo disse in italiano.

Il temporale era più vicino. Ruttò sommesso. Il sole si infiochì.

La bimba pianse. Scalciò:

«Ne, ne!»

«Adeliana.»

Le bastò un gesto, bastò ringhiare, l’indice magro puntato in basso. I braccialetti e gli anelli d’oro che scintillarono alla luce opaca.

La bambina inghiottì il pianto. Le obbedì. Le corse accanto. La vecchia la abbracciò con un sorriso di metallo. Sorrise anche Adeliana, friggeva, era contenta.

Ilaria era incazzata: parecchio, porcodio.

«Ma non si accorge?…»

Però sta attenta. Sta pronta. Filmalo. Lo schifoso adesso esce; fissa ai cespugli con il telefono doveva dire qualcosa, a quella.

La vecchia zingara non le rispose. Le sembrò non la vedesse. Mandava in giuggiole la piccolina solleticandola dappertutto. Anche Adeliana ora la ignorava. Bionda, bella e vaffanculo.

Insistette:

«È ferita. Si rende conto che l’hanno…»

Inghiottì.

Non poté dirlo: «Va portata all’ospedale!»

«Io no capisco», sputò la vecchia. Sillabe liquide tra i denti finti.

«L’hanno aggredita! Sta sanguinando! E c’è un pedofilo, là in mezzo! Aiuto!»

«Cos’è successo, Adeliana, dimmi»: altre parole nel loro idioma. La bambina le indicò quel niente vago nel fango molle, i salici, i canneti, i loro lemmi di consonanti. La vecchia rise, annuì: «è normale.»

«Non c’è da ridere!», sbottò Ilaria.

Non mi ascolta. Ascolta lei; sentì lo stomaco ribollirle.

Il sole era sparito dietro una cappa lattiginosa. Le cose erano spente, la campagna si ingrigì. I ruderi di fabbrica sembrarono inclinarsi.

Nei cespugli, quei cespugli, lui si mosse: strisciò in acqua. Nuotò nascosto nel fiume torbido, lei filmò:

«Non te la cavi.»

Glielo celavano troppi tronchi, troppe frasche, era lontano. Lo seguì lungo la riva, contro il flusso delle schiume, fino a un greto di pietrisco dove il verde diradava.

Poi si immerse.

Lei urlò.

Il telefono le cadde.

Tremò, a raccoglierlo. Guardò il video daccapo.

Quando lui le apparve intero sotto il pelo dell’acqua, scavò il fango con le unghie, le mandibole, le spire, fletté le braccia sul corpo lungo, da anellide, sbatté e si attorcigliò; e protese le antenne cieche, molli e lattiginose a percepirla con intenzione, si sfregò il pene, libidinoso, Ilaria spostò il video nel cestino.

Svuotò il cestino.

Le salì il vomito.

Le prese un capogiro.

L’anziana zingara e la bambina si allontanarono sulla pista. Si tenevano per mano. Adeliana gettò a terra il suo golfino a brandelli. Restò nuda, infreddolita, continuava a sanguinare. Si fermò a fare pipì.

Sporcò la strada di quegli umori.

Che rinsecchirono le margherite.

Che fumarono azzurrini nella pioggia polverosa.