Il soffio maligno attraversò la breccia con il furore di un fiume che straripa, forte del nutrimento elargito a piene mani dalla mia testardaggine cieca. Il terzo pioppo si piegò in una resistenza ostinata, coraggiosa e vana. Si dissolse la chioma in un’esplosione di foglie ovate, si spezzò il fusto bianco, sotto i colpi dell’ascia invisibile di Colui-che-si-avvicina-a-grandi-balzi. Si sgretolò la barriera di sangue del terzo Sigillo.

Il servo è là, è là come sempre, tornato prono sui vimini dell’ultima cesta. Davanti a lui, lungo il torrente agitato dal vento, sfilano silenziose le sagome lunghe dei Preti Minori, sottili ectoplasmi di polvere e sterpi. Avvolti nelle tuniche amaranto, vennero in consesso dai Monti del Sale, per annullare l’influenza nefasta di Uno, il Duesessi. Ma era tardi per questo. Era tardi, ora che le spire del bino m’imprigionavano nel liquido appiccicume di carezze proibite.

Le tuniche amaranto sventolarono sulle punte aguzze dei pali e, dall’alto, mi urlarono l’ennesima, disperata preghiera.

Il sangue del quarto Sigillo si confuse nella polvere del turbine. Trasportati dall’alito infetto del demone, gli spiriti bassi invasero il Quadrante, dissacrando con voli osceni le sale del Pentacastello. Uno, il viscido, carezzò il mio sdegno e li impose alla mia tolleranza.

Il servo è là, è là come sempre, testimone imparziale della rovina del Quadrante. Il servo è là e, tra le pieghe profonde del viso incartapecorito, forse sorride.

Il quinto guardiano si arrese sotto i colpi di becco rabbiosi dei rapaci infernali, che ne attaccarono il fusto e il Sigillo, disperdendone il potere. Accadde quando, in un impeto d’indignazione malsana e istigata, decisi la morte dei Pentarchi, colpevoli d’avermi rammentato la pazzia che mi stava consumando l’anima. Morirono lentamente i cinque Governatori del Quadrante, si spensero sulle cime dei pali, sferzati e irrisi dal vento.

E ricordo il dolore. Un male feroce, dilaniante. Una spada affilata che sezionò la mia follia, strappandole l’urlo infinito dell’estrema sofferenza. Ricordo il dolore per la morte di Uno, il bino, l’essere immondo che amavo. E rammento anche il suo dolore, la smorfia di sorpresa sul viso d’avorio, il corpo affusolato che si contorce sui tappeti morbidi dell’alcova, la bava corrotta dal veleno che sporca il pallore delle labbra sottili. Ricordo il dolore. Furono tre pali nodosi a tenere sospese le carcasse squarciate dei miei giovani figli, tre pali che si colorarono con il sangue del mio seme. Sulle punte di tre pali nodosi si disperse il mio seme. E, con lui, si sbriciolò lo scudo del sesto Sigillo.

Lungo le acque inquiete del torrente, tre fantasmi di polvere, i miei figli, i giustizieri del Quadrante, gli avvelenatori, mi regalano l’orribile lamento del loro silenzio.

Il servo è là, seduto all’ombra dell’ultimo pioppo del filare. Il servo è là che riposa, ora che l’ultima fatica è compiuta, ora che l’intreccio della settima cesta ha percorso l’intera lunghezza della propria spirale ideale. Il pioppo superstite, sferzato dal turbine, si piega a bagnare le fronde sul pelo dell’acqua. China la testa l’albero antico e, talvolta, la nasconde tra gli spruzzi del torrente. Eppure resiste, fedele fino in fondo al suo ruolo.

Il servo è là, seduto sul greto, il servo è là che mi aspetta. Percorro in un sogno ovattato le sale appestate del Pentacastello, attraverso la corte nascosta, costeggio le cinte possenti. Ovunque mi accompagna il sordo frullare d’ali degli spiriti bassi, le larve d’orrore che hanno eletto il maniero a nuova dimora. Mi lascio alle spalle il fossato e sono all’aperto. Il turbine avverte l’intrusione e raddoppia la furia, lacerandomi le vesti e pungendomi gli occhi e la pelle con granelli di polvere cocenti. Vacillante, quasi cieco, avanzo ostinato nel vento e lo raggiungo sul greto. Il servo è qui, seduto sotto il pioppo piegato, il servo è qui, più vecchio del tempo. Davanti a lui la cesta finita. Più indietro, lungo la linea del filare distrutto, ancora sei canestri, coperti da panni di lino annodati. Il servo è qui, davanti a me. I suoi occhi piagati, due braci fra la pelle secca del viso, leggono nei miei la disperazione e il timore di una domanda sospesa. Per questo, consapevole, pietoso, il vecchio me ne evita l’umiliazione.

E la voce è un sussurro sfiatato, che quasi si perde nel fragore del turbine: - Signore, fai quello che devi, concludi il lavoro con l’ultima infamia!... Abbatti il guardiano, frantuma lo scudo, riempi d’orrore la cesta vuota!