I venti bastardi, predones Dei et exules paradisi, sono quelli in cui si mescolano gli spiriti infernali per andare ad affondare le navi e creare rovine di ogni tipo sulla terra. Fanno parte di una legio damnatorum e sono capaci di dissolvere con i loro mulinelli castelli e regni.

(Dal pensiero di Michele Scoto nel Liber Particularis)

Il servo è là, è là come sempre, seduto all’ombra dell’ultimo pioppo del filare. Con l’anima ostinata che affonda nel bozzolo inviolabile del suo silenzio; con i sogni distrutti rinchiusi nella corazza di un nome impronunziabile; con l’umore acido della delusione scagliato dalle dita abili nell’intreccio complicato dei vimini.

Il servo è là, presso il torrente che accarezza l’ala est del Pentacastello, intento a sagomare la sua ultima cesta. E intorno a lui il turbine dà vita alla danza vivace delle sterpaglie. Il turbine, l’alito del demone, il soffio premonitore, l’orrenda avanguardia che bussa alle porte del Quadrante. Picchia forte il pugno del demone, ora che già sei pioppi sono spezzati. Ulula vittoriosa la raffica pestilenziale, sfogando la sua furia contro i tronchi orgogliosi e cancellando i segni dei Sigilli antichi, i guardiani stilati con il sangue della sapienza occulta a salvaguardia del Quadrante. Sei guardiani, sei giganti distrutti dal turbine, uno dopo l’altro, inesorabilmente, per mia colpa progressiva e senza attenuanti.

Il servo è là, è là come sempre. Dalla torre più alta del Pentacastello mi sforzo di sopire l’invidia per l’indifferenza dei suoi gesti, che rinnovano la sfida alla consapevolezza della fine ineluttabile. E accanto a lui, sul tronco ancora integro del settimo pioppo, il brillore dei caratteri occulti, il luccichio di potere dell’estremo Sigillo, scaglia saette d’accusa e ridesta la vaga memoria del mio ruolo tradito. Perché io sono il Signore del Pentacastello, il Reggente del Quadrante, il Difensore. E sono anche la causa della rovina che si preannuncia, l’inetto che spalanca le porte al demone, il valletto che srotola il tappeto di nequizia, per accogliere in un consapevole trionfo di distruzione Colui-che-si-avvicina-a-grandi-balzi e le sue legioni alate.

Il servo è là, è là come sempre, seduto all’ombra dell’ultimo pioppo del filare. Lo osservo a lungo, dalla torre più alta, lo osservo senza stancarmi, mentre muove le dita veloci, lo osservo e ricordo...

E le sterpaglie sollevate dal turbine, in una danza obbediente e spietata, si aggregano nella sagoma ambigua di Uno, il Duesessi. La figura, portata dal vento, scivola lungo il torrente e poi si dissolve in uno sbuffo di polvere. Ma Uno, il doppio, è già morto da tempo, soffocato dalla bava avvelenata che gli scavò la gola. Nella sagoma di sterpaglie, solo il gioco crudele della mia mente ferita. Il ricordo di Uno, l’ermafrodito, che mi accecò i sensi e che mi illuse con il fuoco della salamandra, per annegarmi nell’acqua dell’oblio. Il ricordo di Uno, il subdolo, lo strisciante servo del demone, che armò la mia mano e la inondò di sangue nelle gole bianche, profumate e recise delle mie concubine.

Per questo cadde il primo Sigillo, capitolò con il tradimento del vincolo antico dell’amore. E l’alito del demone soffiò forte attraverso lo spiraglio concesso dalla mia insana lussuria. Soffiò forte e spezzò il primo pioppo, disperdendo il sangue rappreso dei caratteri occulti.

Il servo è là, è là come sempre, mummia seccata dagli anni e dagli elementi, custode impotente dell’ultima difesa. Il servo è là, è là che riposa le dita callose e consuma con lentezza la sua ciotola di riso vecchio. Il riso tenero, il riso bianco, pane di saggi e di santi, cibo di piccole perle leggere, che non confonde la mente né incatena le anime. Il riso, l’alimento del Prete Medio, che morì sulla cima puntuta di un palo, per avermi vomitato contro il proprio disappunto e quello del cielo. Morì sventrato da un palo, per mio ordine, perché diceva il vero. Il Prete Medio morì sulla cima di un palo, così che il turbine spezzò il secondo pioppo e disperse la magia del suo Sigillo.

E poi vennero i dodici Generali, vennero a riferire l’angoscia per il turbine che ingigantiva, alimentato dalla mia stoltezza, nutrito dalla febbre dei sensi che regalava il mio senno a Uno, l’androgino, doppio come una lingua di serpente. Provarono di tutto i Generali, per ridarmi alla saggezza che il mio ruolo reclamava. Avevo ancora un nome, in quel tempo, e volli che i miei Generali lo ricordassero. Per questo ci fu un palo per ognuno di loro, e ora le sagome fiere sfilano sul torrente, trasportate dal vento.