Marco Bennet e Raymond Shaw sono due fra i superstiti di una operazione andata male durante la prima guerra del golfo: a distanza di anni Bennett continua la sua carriera nell'esercito mentre Shaw è ormai candidato alla vicepresidenza degli Stati Uniti. Ma strane visioni e ricordi offuscano la mente dei due e Bennett, contro ogni evidenza e ordine superiore comincia a indagare svelando pian piano l'esistenza di un complesso piano da parte di alcune multinazionali che mirano a inserire nei posti chiave del Paese dei loro uomini dotati di microchip nel cervello e pronti a obbedire incondizionatamente a qualsiasi ordine ricevuto dopo alcuni comandi ipnotici...

Sembra impossibile possa esserci ancora spazio e attenzione per i thriller a base di complotti e cospirazioni politiche, eppure questo nuovo lungometraggio di Jonathan Demme riesce a rinnovare una vecchia pellicola ( Va' e uccidi di John Frankenheimer ) proponendosi come esempio di remake efficace.

Demme brilla in alcuni dei pezzi forti del suo stile: le visioni della città dall'alto (affinando quanto già proposto in Philadelphia), i confronti tesi fra due personaggi, il percorso dell'indagine vista come discesa nell'incubo e riscoperta del proprio Io (inutile citare Il silenzio degli innocenti), certi sprazzi di visioni macabre dotate di una forza grafica inusuale nel panorama registico contemporaneo.

Non può interessarci più di tanto l'oscura vicenda alla base del film nè ci appassiona sapere se alla fine vincono le maligne multinazionali o i buoni poliziotti, presumo che tutto questo abbia interessato poco anche Demme stesso che sceglie fin dall'inizio di identificarsi (-ci) con il personaggio di Denzel Washington (ormai completatamene a suo agio in ruoli simili e capace di offrire prove sempre solide e prive di sbavature) per esplorare altri lidi. Quello di Demme è un pieno recupero di alcune tematiche tipiche del noir di un tempo e ora poco capite dai tanti alfieri del thrillerino (impossibile non usare il diminutivo), specie per quanto riguarda una diffusa atmosfera onirica, con il personaggio che brancola fra sogno e realtà senza riuscire a controllarne l'alternanza (e noi con lui, visto che alcuni istanti, quali il buco in fronte della donna sul treno, non sono "annunciati" dagli usuali stilemi tipici del linguaggio cinematografico quando si passa nei territori dell'immaginato).

Quel che può attirare un fan del genere horror in un film di questo tipo sono gli occasionali sprazzi di macabro che Demme dissemina lungo l'arco diegetico specie in occasione dei flashback/ricordi che si trasformano in autentici incubi a occhi chiusi spalancati, fra persone strangolate a mani nude, crani perforati, donne e uomini annegati a forza e sangue mai così rosso e "fisico".

Altro marcato punto di interesse è lo sviluppo edipico tenuto sopito per tutta la pellicola e poi fatto esplodere nel finale, dato che può ormai sembrare risaputo e già visto ma non certo se si tiene conto dei nomi coinvolti nella scena e del livello di produzione del film.

Demme pigia ovviamente il piede sull'acceleratore nel finale e regala allo spettatore la sequenza migliore, quasi depalmiana nella scansione (come ci sarebbe stato bene uno split screen!), una splendida festa di morte sospesa fra echi di Carrie e ricordi de La zona morta.

Dopo questo climax giunge inevitabilmente tutto l'affrettato post finale, appiccicato probabilmente per esigenze di produzione e di generale buonismo a stelle e strisce. Ma il film si conclude prima, dentro quel salone dove la gente festeggia felice una sconfitta scambiandola per vittoria.

Ottime le interpretazioni dei protagonisti e anche dei comprimari fatta eccezione per una Meryl Streep che vedo per la prima volta in tanti anni poco sicura di un ruolo che ha risolto alzando i toni e caricando le espressioni fino a ridursi a parodia. Tak Fujimoto è sempre una garanzia assoluta come direttore della fotografia.