Paul e Jessie vivono una vita ricca di soddisfazioni e amore: bella casa, buon lavoro e uno splendido figlio di otto anni, Adam. Tutto sembra destinato a finire quando Adam muore in un incidente e scaglia la coppia in un cupo tunnel di dolore. La luce in fondo a questa galleria è rappresentata dall’enigmatico dottor Wells che, a capo del suo Godsend Institution propone a Paul e Jessie la clonazione del loro bambino attraverso il dna del cadavere. La rinascita di Adam sembra regalare nuova felicità ai due ma verso gli otto anni strani e crudeli accadimenti cominciano a funestare la famiglia...

Cosa diamine è successo a Robert De Niro negli ultimi tempi? Troppi conti da pagare? Sindrome di Marlon Brando? Ha cambiato agente? Quello che un tempo era uno dei più grandi attori viventi ha cominciato lentamente, qualche anno fa, ad accettare parti fuori dalle sue corde badando più alla quantità che alla qualità, quasi (e come non comprenderlo) che la sua precedente carriera lo abbia privato di ogni ulteriore stimolo recitativo.

Lo vediamo ora caracollare per questo Godsend, borbottando (con classe, ma pur sempre di borbottio si tratta...) frasi incoerenti e cercando di apparire ora novello Frankenstein ora furioso Saturno. Impresa difficile in un progetto che sembra destinato al fallimento fin dal soggetto, che mischia echi di fantascienza vecchio stampo (ci sono limiti morali oltre i quali la scienza umana non può andare sembra di sentir sussurrare Mary Shelley per tutto il film) con sfumature orrorifiche che inevitabilmente vanno a pescare a piene mani in quel vasto territorio di “bimbi disturbati”, una landa che parte da Il giro di vite per terminare con Il sesto senso attraversando “villaggi dei dannati” ricchi di “presagi”.

Un soggetto così frusto e già visto ha bisogno di vigorosi twist di sceneggiatura per poter trovare una buona soglia di attenzione in un pubblico se non esperto comunque smaliziato dal bombardamento mediatico. Tali trovate geniali latitano e la vicenda spiraleggia ripiegandosi ben presto su se stessa, cercando nei consueti colpetti di paura a base di suoni e visioni improvvise il veicolo privilegiato per scuotere la platea. Peccato che i momenti di stasi e pausa saturino ben presto lo script prevalendo sui pochi istanti di tensione.

Ecco allora che se la suspense e l’orrore mancano, se il soprannaturale svanisce sconfitto a colpi di para-scienza, il povero regista (Martha da legare e The Hole, entrambi comunque più pregevoli di questo) non può far altro che giocare la carta dell’atmosfera, magica parola che in questo caso si traduce in un gran lavoro da parte del fotografo per saturare il nero e i colori freddi generando claustrofobia e senso di inverno perenne. Peccato che questo sia in pratica l’unico aspetto positivo (e comunque abusato) di una pellicola che, privata della presenza di Bob De Niro non avrebbe varcato i confini nazionali.

Da notare anche l’inadeguatezza del resto del cast, da un Greg Kinnear che tende a sovrarecitare (probabile reazione alla presenza di De Niro) a una Rebecca Romijn-Stamos che, ammettiamolo, sembra più a suo agio in ruoli nei quali il suo (peraltro magnifico) corpo possa parlare più della sua bocca. Banale e insipido lo score musicale, magnifici i titoli d’apertura a cura degli ineffabili Kaleidoscope Films Group.