Il dottor David Calloway, dopo il suicidio della moglie, decide di lasciare New York e trasferirsi in campagna con la figlia Emily, traumatizzata dalla morte della mamma. Emily trova comprensione e conforto in Charlie, un compagno di giochi immaginario e il papà all'inizio assegna al fatto un valore positivo.

Una serie di fatti misteriosi e inquietanti, però, spingono il dottor Calloway, con l'aiuto di una psicologa, a tentare di scoprire se Charlie sia solo un prodotto della fantasia di una bambina o qualcosa di più concreto e pericoloso...

Robert De Niro ci riprova (Dopo Godsend) e casca nuovamente in un insipido polpettone neoilluminista che tenta di spiegare le ombre del bosco con la luce abbagliante della psicologia modello readers digest.

Quello che a prima vista sembrava un onesto thriller a possibili tinte soprannaturali si rivela l’ennesima rilettura di Shining versione “vorrei ma non posso”: Papà Saturno porta la prole nella caverna per farci quello che è capace a fare fin dall’antichità. In alcuni momenti i riferimenti sintattici all’opera di Stanley Kubrick sono così evidenti da sconfinare nell’imbarazzo, dal viaggio iniziale in macchina nelle wilderness (ripreso obbligatoriamente dall’alto) al “bussare” finale di De Niro alla porta chiusa passando per una cantina che se nell’Overlook Hotel ospitava memoria, caldaia e “pressione” qui dovrebbe celare oblio, generatore elettrico e “tensione”…

Difficile parlare di questa pellicola senza rivelare qualche “spoiler” ma la sceneggiatura (di uno sconosciuto con pochi lavori alle spalle) è talmente maldestra nel tentare di truccare le carte che mi sembra davvero impossibile non indovinare l’identità dell’amico immaginario ancora prima che Charlie stesso entri in gioco.

Schlossberg e Polson mettono in mostra l’armamentario completo di ogni film del terrore che si rispetti: bamboline mutilate, caverne buie in mezzo al bosco, una casa isolata con tanto di passaggi segreti, tende della doccia che si aprono a svelare l’orrore…

Materiale difficile da amministrare (proprio perché usurato da centinaia di visioni) anche nelle mani di un esperto del genere, figuriamoci in quelle di un regista che è reduce dai “fasti” di Swimfan – La piscina della paura. Non ci sono più verità nascoste da scoprire in questa tragedia greca e Polson si dibatte fra cartoline agrituristiche d’accatto e fugaci flash di paura veicolati in maniera standard, accoppiando un suono improvviso a un’immagine altrettanto fulminea. Siamo nella fiera del banale che raggiunge l’atroce vetta (quante volte l’avete già visto?) del gatto che esce all’improvviso da un armadio.

Fra interni da scarti di pubblicità della Vecchia Romagna e recitazioni sul minaccioso/imbronciato da parte dell’intero cast (chieste e ottenute probabilmente per gettare ombre e mistero sull’identità di Charlie) la vicenda si dipana senza un singolo scossone, un solo guizzo che possa scuoterci dall’invincibile sonno della ragione. Perché è proprio questo l’effetto che generano pellicole di questo tipo: cercando di spiegare qualsiasi cosa in maniera razionale (con il momento della rivelazione che incolla precedenti flashback, I soliti sospetti docet) si finisce ingabbiati in uno schema rigido e difficile da portare a conclusione senza sbavature e falle logiche.

Tutti i reparti sembrano allinearsi su una dolorosa mediocrità, dalla fotografia di routine allo score musicale “copiato e incollato” da una qualsiasi colonna sonora del genere pescata a caso negli ultimi dieci anni. È insieme stupefacente e doloroso assistere al progressivo tramonto di un grande attore quale Robert De Niro: l’assenza di stimoli unita probabilmente ai cattivi consigli di chi gli sta vicino lo porta ad accettare progetti che un tempo non avrebbe nemmeno degnato di uno sguardo.

Bob sai aggira per il set con un’espressione fra il corrucciato e lo stupito, quasi non riuscisse a capire il suo ruolo all’interno del copione. Meglio di lui i comprimari, che pur non lasciando il segno riescono ugualmente a tratteggiare le solite figure stereotipate che ben si adattano alla resa estetica del lungometraggio: c’è lo sceriffo buono (ma forse malvagio?) e tonto, il misterioso (e forse malvagio?) uomo d’affari barbuto, la giovanissima e valorosa (ma forse malvagia?) psicologa e tante altre maschere che sono qualcosa ma forse anche malvagie, almeno rimaniamo nel dubbio fino alla fine e la tensione regna sovrana (altrove).

Inutile poi stare a rigirare il coltello nella piaga della credibilità psicologica dei vari caratteri, da un medico che non conosce se stesso a una trentenne laureata in psicologia che è già a capo di importanti strutture pediatriche e tiene lezioncine telefoniche al suo mentore, dall’agente immobiliare che si presenta di notte allo sceriffo-salame fino allo splendido deus ex machina finale. Meglio allora concentrare la nostra attenzione sull’adorabile Dakota Fanning che diveggia per tutto il film facendo presentire una futura carriera colma di successi e soddisfazioni se saprà tenersi alla larga da genitori invadenti, agenti maldestri, droga e alcool precoci e quant’altro ancora.

In definitiva un film che può vedere con interesse solo chi è rimasto ibernato durante gli ultimi dieci anni.