Tornai di nuovo fuori.

Marco era stato cinto e sollevato da uno dei muratori. Per liberarsi dalla stretta gli stava suonando il cofano sulla testa come il piatto di un orchestrale. L’omone accusò i colpì e lo lasciò andare.

Solo ora, a pochi passi da me, mi accorsi che il muratore aveva il lato destro della faccia completamente scarnificato.

Un altro, quello a torso nudo e (ora che potevo vederlo con più attenzione) senza una mano, mi si parò davanti. Non mi chiesi come avrebbe utilizzato il volante che stringeva in quella rimasta, e non aspettai di impararlo.

Afferrando l’ammortizzatore con due mani, gli sferrai un dritto all’altezza delle ginocchia con tutte le mie forze. Il muratore si piegò sulle gambe come Celentano e io infierii col secondo colpo dritto alla gola. Il pomo d’adamo si staccò di netto, quasi avessi battuto per un home run. Cartilagini e tessuti si sparsero ovunque.

L’omone si irrigidì e si piantò di faccia tra le barbabietole.

Un sasso mi colpì alle spalle.

Era arrivata la cavalleria, solo che ancora non sapeva chi caricare.

Il Pazzo mulinava le braccia, scagliando sassi ovunque come una spara-palle da tennis impazzita. Le racchette divennero la mia schiena, la testa di Marco e i corpi giganteschi degli altri due muratori.

Uno di questi ricevette un sasso grande come un melone. Il lato sinistra della testa gli si incurvò. Camminò di sghimbescio per qualche centimetro poi finì per terra.

L’ultimo spargi-calce segnò un punto con l’asse di legno colpendo sotto il mento Marco, che si sollevò di un palmo dal suolo e ricadde come un sacco vuoto. Non si rialzò più.

Ora c’ero io, il muratore, Jessica e il Pazzo senza più munizioni.

Il muratore era davvero grosso. Il corpo gli brillava di sudore e sangue. Non aveva più la mandibola, sfortunato effetto dell’incidente causato dal sottoscritto, e faceva una paura da matti.

Caricò verso di me, urlando (di certo senza mandibola poteva fare poco altro).

E le barbabietole mi diedero una mano.

Strano a dirsi, ma l’omone inciampò tra le foglie correndo scoordinato e si tuffò verso di me con gli occhi pieni di sorpresa e, forse, un po’ di vergogna. Senza mandibola la sua espressione fu ancora più buffa, al limite del tenero.

La mia unica abilità fu di capire quello che era successo. Allargai le gambe, mi piantai bene al suolo e tenni in avanti l’ammortizzatore.

L’omone ci finì contro con quello che rimaneva della bocca, la molla gli trapassò la gola e fece capolino dietro la nuca.

L’impatto mi fece precipitare tra le barbabietole (le mie amiche) e il muratore fu la mia pesante coperta.

Non si mosse.

– Ce l’hai fatta – disse lontano, da qualche parte, Jessica. – Che tu possa trovare un altro inferno.

– Ce l’ha fatta.

Buio.

Odore di gasolio.

Luci intermittenti. Blu.

– Ce l’ha fatta. Mi sente?

La voce di un uomo.

Odore di disinfettante. Plastica.

Aprii gli occhi ma era tutto nero.

– Signore. Può vedermi? È vivo ce l’ha fatta. Andrà tutto bene.

Provai ad aprire la bocca.

– Non parli. Non si sforzi. Presto starà bene.

– Che giorno è? – La mia voce era gesso sulla lavagna.

– È il 17 luglio. Venerdì. Una bella sfortuna. Ma andrà tutto bene – L’uomo rise.

– No.

– No?

– No. È giovedì 16 che porta sfiga e a volte le barbabietole.