Questo è un racconto dell'orrore, che narra una storia spaventosa e drammatica accaduta a un ragazzo.

Hideshi Hino, classe 1946, non sarà un nome notissimo presso la media degli appassionati di manga, ma è un maestro indiscutibile per quanti apprezzano e amano l'estremo in termini di fumetto.

È vero che il genere orrorifico manga, complici anche maestri visionari come Suehiro Maruo, Junji Ito, Kazuo Umezu, e primo fra pari Shintaro Kago (al quale, confesso, attribuirei la palma dell'osceno in termini di brutalità), è stato parecchio sdoganato. È vero che forse c'è stata un po' troppa ironia a guastare quell'atmosfera quasi colpevole e proibita che accomunava gli appassionati del truculento nipponico. È vero che ormai l'offerta in termini fumettistici copre qualsiasi genere e spesso è fatta di disinibita contaminazione. Eppure, anzi forse proprio per tutte queste ragioni, Hideshi Hino resta capostipite e iniziatore dell'arte, anche perché è stato precocemente pubblicato in Italia negli anni Novanta del secolo scorso e il sottoscritto ne conserva ottimi ricordi.

Chi lo conosce avrà quindi poche sorprese, ma certamente tutto il piacere del ritorno di un vecchio amico, con questa edizione di Bug Boy (Dokumushi Kozo), opera del lontanissimo 1975, edita per Dynit, collana Showcase (2018). Chi non lo conosce potrà scoprire un modo di raccontare lo spaventoso che trasuda una grezza vitalità, una forza essenziale e quasi primitiva. Lo stile così caratteristico di Hino non ammette sconti: o piace o respinge. Facendo un paragone potremmo definirlo il Sampei Shirato dell'orrore. La narrazione è estremamente scarna e ossessiva, e conserva i tratti antiquati dell'intrattenimento didascalico dei cantastorie. Non ci sono virtuosismi, strizzatine d'occhio a altri generi o momenti di ironia che alleggeriscono l'opera. Hino va al sodo e raggruma nella legnosa brutalità del suo tratto antianatomico, privo di raffinatezze tecniche ma icastico, tutta la carica essenziale delle sue storie: fondamentalmente una lotta per la sopravvivenza in cui l'esistenza è percepita come un catalogo di atrocità.

È ovvio che poi prendi sempre uno in tutte le materie! Hai sempre insetti e serpenti in mano! Tu non sei normale

La storia di questa trasformazione da ragazzo a insetto fa pensare immediatamente al Kafka della Metamorfosi, ma siamo lontani dalla lettura psicoanalitica o dalla denuncia dell'incomunicabilità umana tratteggiate dal maestro praghese. Ci troviamo semmai nella storia della sofferenza senza fine patita dai deboli e dagli ultimi, l'unico livello metaforico che Hino ci consente. Il protagonista – Sampei Hinomoto – è il classico *loser*, lo sfigato per eccellenza. Strambo, interessato solo a collezionare insetti e poi (vedremo) accudire animali in una discarica, negato per la prestanza fisica e il successo intellettuale, vive un'esistenza fatta di costanti umiliazioni. In casa è angariato dai fratelli, apprezzati e lodati. I genitori gli sono indifferenti, quando non ostili. I compagni di classe lo bullizzano e tormentano senza posa. L'unica gioia è la liberazione da questa ostile umanità che lo circonda e Sampei non ha altra scelta che diventare un solitario. Si ricava un rifugio all'interno di una discarica – luogo principe dell'immaginario Hiniano: dal fiume-pattumiera di Visione d'Inferno (Jigokuhen) alle periferie malsane di Hell Baby, insieme col tema del reietto – e lì vive pochi minuti quotidiani di tregua dalla sua detestata vita. Purtroppo per lui questa sorta di precario equilibrio si spezza quando viene punto da un orrendo insetto velenoso, del tutto casualmente (non vi è alcuna logica per la comparsa del male nei fumetti di Hino). Da lì una orribile e sfigurante malattia trasformerà Sampei in un mostro, un verme che di umano ha solo i tratti del volto. Questo evento è lo spartiacque narrativo del volume. La nuova esistenza di Sampei lo voterà all'orrore, alla solitudine, alla violenza e alla degradazione, non senza una gustosa e scarosanta vendetta sui suoi aguzzini.

Nessuno era a conoscenza del suo nascondiglio, che si trovava in una discarica […] Sembrava in tutto e per tutto il cimitero del mondo. La gente ci buttava le cose più disparate […] ma per il ragazzo era una sorta di paradiso

Senza voler svelare il finale, in linea con la "filosofia" di Hino, Bug Boy è una storia di alienazione, di separazione, di disarticolazione straziante e letterale. A mio giudizio il punto più triste è quasi sicuramente il momento in cui gli unici amici del ragazzo, i suoi animali, rinnegano ogni legame con Sampei-verme, e lo attaccano. Sta forse qui il messaggio più crudele della narrativa di Hino: non le mutilazioni, non i cadaveri, non il 'gore' pervasivo e spietato, non la decomposizione o la decadenza su ogni fronte, e neanche la trasformazione da vittima a persecutore, ma la crudele durezza di una natura che non conosce che sé stessa e che vive di una legge ancestrale di rifiuto del diverso e di repulsione per l'inspiegabile. Il Sampei verme è letale ma solo, impotente nella sua mostruosità, escluso e recluso. Solo l'annientamento totale consentirà l'uscita dal dramma.

Ma per quanto fosse libero di fare quel che voleva, per quante avventure potesse vivere, niente era in grado di riempire il suo cuore. Il ragazzo si sentiva così solo

Bug Boy è la storia di questa consapevolezza, amarissima e devastante. In breve quest'opera si inserisce nella concezione cosmica che Hino esprime continuamente nei suoi fumetti e rappresenta un capitolo destinato a piacere sia agli amatori del genere e dell'artista, sia a chi per la prima volta si affaccia sul terribile teatro dell'orrore di questo decano del fumetto nipponico.