I virtuosi del metal sono tornati.

E’ difficile parlare dei Dream Theater... difficile parlare “di un gruppo difficile” (sia perdonata le repetita!) che è sempre stato capace di offrire al pubblico la perfezione tecnica, correndo il rischio di non venire apprezzato proprio per questo motivo. Sono stati bollati da alcuni come “barocchi” (la definizione più simpaticamente cattiva riferita a loro è stata: masturbatori del riff), da altri come freddi e noiosi, soprattutto da chi non suona, e adesso tornano alla ribalta con un album che tradisce ogni aspettativa pessimistica.

Train Of Thought si presenta con un’aggressività che stupisce; lascia attoniti assistere alla fuoriuscita di tanta energia da un gruppo che è sempre stato, indubbiamente completo dal punto di vista tecnico ma, tutto sommato, prevedibile. Train Of Thought trasmette un senso di metamorfosi, vista non come graduale evoluzione, ma come scoppio... un po’ come quei “bravi ragazzi” che all’improvviso si mettono a fare i cattivi, lasciando finalmente tutti a bocca aperta.

La scossa la si sente da subito, dalle prime note di As I Am: “Don’t Tell Me What’s In/ Tell Me How To Write/ Don’t Tell Me How To Win This Fight/ Isn’t Your Life...” Indubbiamente parole di protesta, di chi vuole gridare, e non semplicemente dire, la sua. Il vigore di questa prima track la rende, ipnoticamente, ascoltabile e riascoltabile più volte, come se si volesse sentire tirare sulla pelle quel “Take Me as I Am…”. Ed è proprio la voce di James LaBrie una delle sorprese che si colgono immediatamente in questo album, in grado, per una volta, di non far passare in primo (e spesso unico, almeno a giudicare l’idolatria di certi fans) piano il solito John Petrucci. Sembra che LaBrie si sia appropriato di una ferma capacità interpretativa (oltre ad aver riacquistato una smagliante forma fisica, la stessa che gli ha permesso di regalare al pubblico concerti di ben tre ore).

La lunghezza di ogni pezzo è pericolosamente abbondante, ma elude bene il rischio di annoiare l’ascoltatore. In The Name Of God e This Dying Soul reggono benissimo i loro undici minuti, lasciando che chi ascolta entri in punta di piedi (anche con un po’ di diffidenza, magari) per poi arrivare a immergersi nel lento, mai arrancante, dipanarsi del suono.

Non fa eccezione neppure la chilometrica, strumentale, Stream Of Consciousness, in cui riconosciamo i soliti “musicisti classici” del metal, che però non suonano “a spirale”, piroettando su se stessi, ma pare proprio vogliano che il suono si indirizzi verso l’ascoltatore. Questa volta la musica non rimane a uno stadio di vita propria, insomma, ma chi ascolta riesce a raggiungerla, seppure con la punta delle dita.

C’è il piacere di goderselo tutto, questo album così diverso. Diciamolo, Six Degrees of Inner Turbulence era un cd che sembrava messo lì come riempitivo e lasciava con un po’ di amaro in bocca, come una sorta di sterile autocelebrazione con scarsa capacità di trasmettere davvero un’emozione. Train Of Thought invece stupisce, perché pare che, mai come con quest’opera, i Dream Theater si siano avvicinati al metal. Non ci troviamo tra le mani un album cesellato come Scenes From a Memory (che comunque continua a essere uno dei più amati), ma attenzione: la ricerca di suoni più “hard & heavy” non è certo sinonimo di maggiore “orecchiabilità”. Il suono spesso assume un tono evocativo, estremamente sofferto, come in Endless Sacrifice e in Honor Thy Father, le cui liriche si mostrano crude e autentiche. I maestosi riff di chitarra, immancabili, non vogliono fare da primadonna, ma tendono a congiungersi con le parole creando così quell’armoniosa “imperfezione” che è la canzone.

Non c’è alcun gioco delle parti del tipo: “stavolta vincono le parole... l’altra volta invece predominavano gli strumenti”, ma c’è piuttosto, tangibile, un vicendevole assecondarsi.