I primi fulmini dell'imminente temporale saturarono l'aria di ozono e umidità.

Il dio nell'alcova di Elvezio Sciallis è un libro "tempestaro", ovvero portatore di tempesta. Offre al lettore una tregenda che insieme affascina e spaventa.

Gli otto racconti che compongono Il dio nell'alcova andrebbero chiamati minature, tanta è la cura, la misura, la perizia da artigiano con cui sono scritti. La lettura trasmette due vivide impressioni: la prima è eminentemente sensoriale, perché l'autore riesce a far sentire sulla pelle il refolo freddo delle sue creazioni, a farne annusare l'odore, spesso marcescente, e a mostrarne distintamente la forma (la capacità "pittorica" della penna di Sciallis è, in una parola, fenomenale). La seconda è emotiva, e nasce dalle paure "quotidiane" che il sense of wonder elargito a piene mani riesce a trasfigurare e innalzare sino alla forma sublime: quel timor panico che appartiene a luoghi e situazioni senza tempo. Lo stesso timor panico che, se non si è troppo anestetizzati dalla tivvù e dalla "vita moderna" in generale, si avverte - appunto - dinanzi allo scatenarsi di un temporale.

Lontanissimo da ogni moda attuale, Sciallis sceglie di mettere in scena qualcosa di meglio della cronaca nera: la realtà non è il suo punto di arrivo, ma il punto di partenza. L'approdo dei suoi racconti, per la gioia del lettore affamato di horror, sono incubi fatti di simboli potenti, presenze maligne e oscurità densa. Visioni notturne, febbrili, fondate su quegli elementi ancestrali (tempesta, Male, mare, boschi, demoni e fantasmi) che troppo a lungo - colpevolmente - sono stati censurati da questo genere di narrativa.

L'antologia si apre con il racconto che le dà il titolo, il dio nell'alcova che in sei paginette scarse riesce a evocare luoghi, quelli tra le valli liguri e francesi, abbastanza disabitati e oscuri da poter celare agli occhi dei più divinità in cerca di solitari olocausti. Il racconto successivo, Eclissi totale di cuore, narra la genesi di un fantasma sviluppatosi intorno a un nucleo di dolore assoluto e partorito dal lutto; un altro fantasma, o presenza, o demone, è il protagonista di Coda-Marine 475, forse il racconto più incisivo e violento dell'antologia. Un gioco d'ombre appare invece la prova meno riuscita: qui la storia si smarrisce nell'intento didattico e finisce così per diventare melensa. E' il successivo La caccia a riportare l'antologia sui binari giusti, con una succulenta prova di contaminazione tra horror e fantascienza che è impossibile leggere senza sghignazzare, tale è l'ironia che la pervade. I tre racconti successivi, Ombre nella pioggia, Scavando nel fuoco e Compagno di giochi, sono altrattante prove di stile. Il primo sarebbe piaciuto, e moltissimo, a Lovecraft. Il secondo è un divertito e divertente scherzo che potrebbe essere frutto di un Poe in versione cinefila. Il terzo sembra una risposta "politicamente scorretta" al Sesto Senso.

A fine lettura si avverte un certo disagio. Disagio per gli angoli scuri e la polvere della stanza in cui ci si trova e ancora disagio per un volumetto finito troppo presto, troppo corto, che ci lascia affamati di altri incubi e altre visioni.

Se è vero che, come hanno scritto nell'introduzione Luigi Boccia e Nicola Lombardi, "l'Italia è un paese di storie dimenticate e di scrittori che hanno smarrito l'arte di raccontare", possiamo almeno consolarci con un autore che ha ritrovato l'arte e ricordato storie onestamente fantastiche, onestamente horror.