1) PARAPHERNALIA. Una voce c’introduce a tempo di marcia, accompagnata da un’inquietante nenia tastieristica. Scritta e recitata da Alejandro Jodorowsky, la prima traccia del secondo concept, contiene anche citazioni da Crowley, La Vey e Borroughs e invita a entrare nel ‘teatro panico’. Gli ‘effimeri panici’ sono happening, celebrazioni che Jodoroskwy animò in Cile e Messico partendo dalle sue esperienze di marionettista, artista circense e mimo. ‘Panico’ deriva da Pan, il Dio dal carattere fallico e infero protettore della campagna, dei cacciatori e dei pastori, che fu abbandonato sia dalla madre che dalla nutrice per la sua bruttezza (già alla nascita aveva barba, corna, muso e piedi di capro) e fu allevato così da Ermes sull’Olimpo. Da adulto prese a vivere nei boschi dove si divertiva a spaventare i viandanti. Secondo l’etimologia venne associato anche al ‘tutto’ e considerato di conseguenza l’incarnazione dell’universo. Diffondeva il ‘panico’ se disturbato, e proteggeva il riposo pomeridiano. I Romani lo identificarono con Fauno, Silvano e Sileno (il folle satiro che canta per farsi liberare dai pastori). Ispirandosi agli stessi principi degli effimeri panici, Jodorowsky creò nel 1962 con Fernando Arrabal e Roland Topor il “Teatro Panico”, in omaggio al dio Pan inteso più come ‘tutto’ che come ‘infero’ e intendendolo più come ‘azione’ che come ‘movimento’ in senso artistico. L’ ‘azione’ si ricollega anche a un altro aspetto della filosofia di Jodorowsky, ovvero la “psicomagia”: una sorta di unione fra psicologia e magia che intende guarire con un atto magico agendo sulla psicologia del paziente (simboli di fatti e azioni che hanno disturbato la nostra psiche possono influire, tramite un rituale, sulla guarigione). Tutto il concept oscillerà infatti fra azione e contemplazione, sensualità e purezza, quotidianità e mito, e riverserà questo doppio volto anche nella musica, intrecciando oltre che elementi tipicamente metal e suoni derivati dall’elettronica, persino armonie occidentali e orientali. Del resto, i legami fra Pan e la musica sono noti a partire dal flauto che porta il suo stesso nome: come narrano le Metamorfosi di Ovidio, le ninfa Siringa per sfuggirgli (Pan è di un’incontenibile sensualità) si tramutò in canna (da cui derivò il flauto omonimo); alcuni autori narrano che Pan è anche l’assassino di Eco, di cui rimase solo la voce. Ma adesso possiamo lasciare che il sabba abbia inizio...

 

2) LET THE SABBATH BEGIN. L’intrigante riff di chitarra ci fa subito assaporare il gusto mediorientaleggiante di cui è intriso tutto l’album. Paradossalmente, l’invito al sabba s’insinua così nei nostri nervi più con queste note che con le parti corali verbalmente esplicite. Il ‘doppio volto’ menzionato in precedenza appare sin dall’appello: “Pazzi, saggi, vergini e puttane”. Tutti possono prendere parte alla festa (col corpo e con l’anima). Grida incalzanti si alternano ai colpi di campana che preannunciano l’intro del brano successivo...

3) HI-TECH JESUS.... e la drammatizzazione di una benedizione in latino introduce il tema più originale dell’intero disco. Questo Cristo moderno che vende indulgenze via Internet è finalmente in grado di non abbandonarci mai nel peccato: per poter chattare col proprio dio e ottenere la remissione dei peccati basta avere una carta di credito! Come prevedibile dal titolo, è il brano in cui erompe la fusione fra il metal e l’elettronica. Gli arrangiamenti sono curati in modo maniacale per distinguere una sezione dall’altra, soprattutto dal un punto di vista ritmico. L’hook sta però nell’efficacissimo ritornello, perfetto slogan religioso.

4) LADY OF BABYLON. Con la quarta traccia ci troviamo di fronte a uno dei momenti probabilmente più alti dell’intera produzione dei Death SS. Sin dal riff tastieristico sostenuto dalla robusta chitarra, che sfocia nel magico vocalizzo femminile (ancora un episodio ‘esotico’), troviamo tutti gli aspetti del sound del gruppo sperimentati sinora, uniti a un gusto melodico a cui non si era invece ancora giunti. La strofa parte sommessa e in un secondo momento sale di tonalità, accompagnata in modo più aggressivo, tanto che potrebbe apparire quasi come un bridge verso l’innodico ritornello configurato come un’invocazione alla Dea. Lo schema ‘pop’ suddiviso in strofa-ritornello elimina con ‘l’amplesso della Dea’ (l’ottimo lavoro ritmico sottostante è indispensabile per la riuscita della figura) il prevedibile assolo alla fine del secondo ritornello che pare poi affacciarsi con tastiera e chitarra all’unisono dopo il successivo reprise. A questo punto torna il vocalizzo, ma stavolta in canone, e il climax è raggiunto attraverso un dimezzamento dei tempi della ritmica, a sostegno di quello che si configura adesso come un vero bridge. La struttura si arricchisce ulteriormente nel finale, miscelando il vocalizzo alla parte di ritornello riservata ai soli cori.

Ricollegandoci agli studi di Aleister Crowley troviamo che “Lady Babalon” rappresenta la sposa della Bestia (ed è quindi la diretta prosecutrice della Donna Scarlatta del disco precedente), con tutti i simboli pagani e cabalistici (acqua, maternità, coppa, etc.) che ne conseguono. Da un punto di vista pagano, se Ishtar e la Regina Cannibale incorniceranno separatamente le due facce contrastanti della Signora di Babilonia, questo brano la rappresenta in modo totale, completo e intero (da non intendersi precisamente come sinonimi) sia a livello verbale che musicale, e il cerchio si chiuderà nell’ermafrodita, quando la galleria si esaurirà.

 

5) THE EQUINOX OF THE GODS. Verbalmente potrebbe apparire quasi un pezzo ‘new age’: non fa che annunciare l’alba di una nuova religione che si configura in realtà come il legittimo ritorno di una ancora più antica. Speculare alla quinta traccia del disco precedente, fa riferimento al dio egizio Horus, figlio di Iside e Osiride (sempre per il ‘doppio volto’ del concept vale la pena ricordare che si trattava di fratello e sorella): “The great Horus will reclaim his rightful throne/Stolen by your Christ”. Armonicamente appaiono ancora scale derivate dall’oriente e il tutto raggiunge un sinfonismo da musical, in cui i temi di ogni strumento ricorrono e si rincorrono. La sezione ritmica dirige magistralmente l’orchestra: la batteria dosa con gusto finezze e geometrie che reggono la sontuosa tessitura della tastiera e lo struggente assolo di chitarra.

6) ISHTAR. La Dea con la ‘D’ maiuscola, invocata tramite alcuni dei suoi innumerevoli attributi e nomi, derivati da diverse civiltà (anche le armonie sono dissonanti), si materializza (a dispetto di suoni ancora più sintetici di quelli del cyber-god) attraverso la voce femminile già ascoltata in Lady of Babylon e addirittura si libera in un a solo. La richiesta d’amore, “per un’ultima volta”, acquista un sapore macabro alla luce del brano successivo.

7) THE CANNIBAL QUEEN. Ecco qui ‘l’altra faccia della Dea’: colei che può dare la vita può dare anche la morte. Non solo verbalmente tutto ciò che poteva essere associato al ‘celeste’ o alla preghiera svanisce, ma anche musicalmente il brano ha un impianto più tipicamente rock. Torniamo alle radici, alla ‘jungla’ della religione e della musica. Tutto è più viscerale: dall’approccio strumentale (riff di chitarra in primis) alla descrizione della divinità che si ciba delle sue creature.

8) RABIES IS A KILLER. La cover degli Agony Bag entra all’improvviso all’interno del concept per descrivere il lato ‘folle’ e ‘diabolico’ persino del migliore amico dell’uomo (i latrati in apertura richiamano alla mente i primi lavori del gruppo). Il cane rabbioso con la schiuma alla bocca non si allontana poi molto dalla selvaggia Regina Cannibale, né dal Dio Pan, che continua ad affacciarsi in ogni traccia indossando maschere sempre diverse.

 

9) TALLOW DOLL. L’amore ottenuto attraverso fatture su bambole di cera parrebbe un’intrusione, un ‘fuori tema’ all’interno del concept. Se invece ci ricolleghiamo questa volta al doppio volto della filosofia espressa in apertura, possiamo circoscrivere l’episodio a quella parte di magia che si realizza non con il verbo ma con l’azione. E' il rituale, il simbolo materiale che finora mancava. Funereo è il riff di chitarra che si trascina (più o meno semplificato e variato a seconda della sezione) lungo il corso del brano; seducente il ritornello (uno fra quelli di maggior presa immediata); i passaggi di tastiera sono sullo stile di quelli comparsi “all’equinozio degli dei”, curiosamente (?) l’unico altro brano oltre a questo a contenere un assolo di chitarra.

10) HERMAPHRODITE. La rivisitazione dei Limbo riecheggia testualmente e alchemicamente la formula del Baphomet. Ogni opposto, nei temi verbali, nella musica e nel ‘concetto’ generale del disco (l’elettronica è signora e padrona ma, al tempo stesso, spunta qua e là un organico indù) si riunisce definitivamente qui. Non è un caso infatti che adesso la voce maschile e quella femminile cantino perlopiù all’unisono.

11) PANIC. Non è un folle e non è un santo, ma è Dio e il Diavolo. Insieme. Dopo il ricongiungimento degli opposti abbiamo una sorta di sunto finale del ‘panico’. Il Dio Pan torna a chiamare (anche attraverso il suono del flauto che porta il suo nome) e la scelta è quella di realizzarsi nell’ebbrezza, di trovare se stessi partendo dalle esperienze più primitive (torniamo dunque alla “via della mano sinistra” del disco precedente). Melodie ‘a spirale’ sembrano descrivere l’euphoria di queste scene ‘dionisiache’ e, unite all’ampio uso di samplers, ci proiettano invece verso quello che sarà il prossimo disco. Il “clown della lussuria” non scomparirà qui.

12) AUTOSACRAMENTAL. Il cerchio si chiude con una nuova recita di Jodoroskwy, anche stavolta a tempo di marcia e accompagnata da suoni perlopiù sintetici, ma assai più breve della prima, sfumata nel finale: “Il teatro panico non ha limiti”, così come il concept stesso, che si riversa nel nuovo teatro il cui sipario sta per aprirsi...

00. Introduzione

01. In Death of Steve Sylvester

02. Black Mass

03. Heavy Demons

04. Do what thou wilt

06. Humanomalies

07. The Seventh Seal