1) THE SIDESHOW. Risate e grida di bambini c’immergono in un’atmosfera festosa da fiera e pare di vedere palloncini e zucchero filato. Una voce annuncia l’inizio dello spettacolo circense accompagnata da una datata marcetta da banda paesana. Improvvisamente, con un salto nella tonalità minore, le risate diventano più sinistre e le grida più strazianti.

Non è un semplice spettacolo di animali o acrobati quello a cui stiamo per assistere, ma uno psicotico passatempo di esseri umani che scrutano con morboso piacere altri esseri umani ‘diversi’ da loro.

Paradossalmente, il motivo bandistico di sottofondo alle parole dell’annunciatore che già presenta le ‘mostruosità viventi’ del circo dei freaks (l’immaginario deriva in gran parte dal film omonimo di Tod Browning del 1932), è assai più inquietante del susseguente passaggio in minore (che, a quel punto, diventa prevedibile e pertinente), forse proprio per l’effetto di straniamento che produce nell’ascoltatore. Siamo in presenza, in un certo senso, di quel tipo di colonna sonora cinematografica, peculiare soprattutto dei film dell’orrore, che esprime indifferenza riguardo alla situazione che si sta dispiegando davanti ai nostri occhi. E' un espediente che permette non di diminuire, semmai di raddoppiare l’emozione creata dalla scena, inserendola in una situazione universale (è quella che il teorico dell'ascolto Michel Chion chiama 'musica anempatica'). Il motivo in questione, eseguito in tonalità maggiore, frivolo, ingenuo e festoso, non fa che rinforzare nello spettatore (nel nostro caso l’ascoltatore) la sua emozione individuale, di fronte al fatto che tutti gli altri paiono non accorgersi di quello che l’annunciatore sta dicendo.

Le successive grida e la tonalità minore sono ormai solo una liberazione: a questo punto sappiamo cosa abbiamo di fronte. Lo ‘stupido’ cantilenare di una sorta di pianola meccanica induce al dondolio, a una psicotica regressione infantile, svela la verità, il folle volto del motivetto bandistico che ci aveva svegliati. Il carillon materializzato dalla tastiera non risolve sulla tonica e si lega all’inizio dello spettacolo...

2) GRAND GUIGNOL. La musica ci viene sbattuta in faccia tramite suoni elettronici e un riff ossessivo che si snoda lungo tutto il brano alternandosi con le sezioni vocali. La prima strofa, fatta eccezione per la batteria, è ‘nuda’, in modo da afferrare alla perfezione le promesse di sangue fatte dal palco del ‘teatro della violenza’. L’aggressività sale progressivamente riempiendo di ‘parti’ (perlopiù in distorsione) la strofa successiva, per cui il secondo ritornello appare meno irruente del secondo, pur essendo tendenzialmente il medesimo. Un assolo di voci e versi terrificanti (e terrificati) anche ricavati da samplers, s’incolla, prima, sulla terza esposizione del riff, poi su una sorta di marcia per il patibolo, infine riparte pure dopo l’ultima sezione vocale (a volte addirittura accordandosi al tema del riff); il ritornello finale, questa volta, è ancor più omogeneizzato alle altre sezioni del brano: quasi fosse uno slogan, la sigla ci ha ormai convinti che ‘sangue e brividi saranno garantiti per tutti’.

Il concept si dipana in avanti annodando un armonico della chitarra a una nota acuta della tastiera nel brano successivo.

3) HELL ON EARTH. Il puzzle di voci e rumori ancora non ci abbandona. Strutturalmente il brano non si discosta molto dal precedente anche se il ritornello risulta più elaborato. Adesso non c’è più bisogno di presentare brutalmente una situazione generale. Da qui in avanti ogni tema musicale sarà il leitmotiv di un personaggio o di una situazione (o condizione) rappresentata. L’ ‘Inferno sulla terra’ consiste nell’avere come amante una creatura per metà bestia e per metà donna, mostro e Dea, fenomeno in grado di pietrificare dal terrore, ma anche di scatenare un’irrefrenabile passione; non conta se si tratta di una creatura di Dio o di un bel corpo deturpato dalla gelosia umana.

Il doppio volto dell’amante si riversa anche nell’architettura del brano. La chitarra si divide fra un pianto bestiale e un aggressivo riff, la tastiera oscilla fra acrobazie in ascesa e in discesa e passaggi lineari, quando non tormentosi, il basso e la batteria procedono con tempi pari, mantenendo però spesso gli accenti contrari l’uno rispetto all’altra, il maggior apporto melodico della voce è controbilanciato da uno statico effetto chorus ossessivo quasi quanto la base ritmica.

Già da questa prima apparizione il messaggio che arriva è quello della relatività della mostruosità.

4) PAIN. La sperimentazione elettronica si spinge al limite dell’avanguardia, di pari passo con l’ossessività, nella descrizione del dolore; solo che, come non stiamo più parlando di un orrore ‘visivo’, pure la sensazione qui descritta non è esteriore, bensì interiore. Non si tratta di un male fisico vero e proprio, ma di un tormento che logora (ecco l’intento dell’aspetto ossessivo del brano) dall’interno. Se, superficialmente parlando, la musica ‘udita’ è un fenomeno esteriore, quella ‘eseguita’ o ‘subita’ ha la sua causa ed effetto all’interno del corpo umano; corpo in grado di produrre ‘ritmi’ attraverso, per esempio, cuore, respiro o sbattere di palpebre.

Adesso anche le voci (sia il solista che i cori) si fanno strumento ritmico, pulsazione, groove, descrizione dell’emozione, e il tutto è rappresentato alla perfezione dalla sezione centrale: una ‘pittura sonora’ che sta a metà strada fra battito cardiaco (interno) e passo inquietante in avvicinamento (esterno), con voce in sussurro (respiro interno): impulsi corporali, primordiali, che rendono il brano quello di maggior presa immediata.

In una scala di valori qui non c’è più ribrezzo, né orrore, ma vero e proprio terrore: sia quale brivido esterno sulla pelle, che come attacco d’ansia a livello di pulsazione interna (stomaco e tempie). Se dell’interno si occupa la sezione ritmica attraverso anche le raffinatezze dell’effettistica vocale, i brividi sono opera delle gelide tastiere e della chitarra lancinante.

Il momento di tensione e d’attesa descritto dalla tastiera fra la prima e la seconda sezione della prima strofa è preludio di tutto l’andamento del brano, che oscilla fra riempimento progressivo e repentini abbandoni dell’organico (abbandoni e stacchi che si configurano come ripetuti ‘sussulti’).

La constatazione dell’inutilità di qualsiasi rimedio alla sofferenza è rafforzata dall’idea che altre opportunità possano solo far rivivere gli stessi errori. Il risultato è claustrofobico, per la traccia che è sicuramente uno dei momenti più interessanti dell’intero lavoro.

5) MIND MONSTROSITY. L’orrore interno al corpo si sposta, in questo breve brano strumentale che si configura quale una sorta di intro al successivo, nella mente, dove, a esseri anomali si accoppiano qui strani suoni e rumori; andiamo oltre dunque, sia a livello tematico in merito alla ‘fisicità’ dell’orrore, sia a quello musicale in avanguardia (e futurismo); certi effetti sembrano di fatto presi a prestito dal sonoro di un film di fantascienza (i rimandi del brano a seguire parrebbero sia pittorici che fumettistici): motivi ‘vertiginosi’, qui rappresentati da ‘un qualcosa’ che richiama l’aprirsi e il chiudersi di porte d’astronave (o delle mente?), ricorrono comunque nel corso del disco quasi a ricordare l’immagine del circo, della ‘giostra’, teatro dell’azione. 

 

6) THE SLEEP OF REASON. Gli strani effetti elettronici si amalgamo ora a un più classico organico fatto d’archi e piano o a risorse d’impianto comunque più tradizionalmente rock (abbiamo qui, paradossalmente, uno dei pochi assoli di chitarra).

La schizofrenia musicale è espressione delle liriche. Adesso è il mostro vero e proprio che parla, il mostro ingabbiato nella mente di ognuno di noi; voce (o ‘voci’?) sommessa, sofferta, soffocata, quasi quella di un paziente sotto ipnosi; ma l’amara verità riesce a venir fuori (a pain I cannot hide), il dolore interno di cui parlavamo in precedenza non può restare confinato nel corpo ed emerge in superficie sui tratti del volto e fra le note. Dopo questo scavo in profondità siamo pronti a comprendere meglio nuove esperienze ‘visive’.

7) MISERERE. La liturgica richiesta di pietà si tinge di Medioevo con i colori dell’organo e del profondo coro in stile gregoriano. Il movimento è sillabico, apparentemente senza tempo (sia in senso letterale che in merito ai valori ritmici). L’organo si dispiega severo e monolitico nella stanza più fredda del disco, buia e immensa come un’antica cattedrale, le cui volte sono misurate dalle parti del coro che, cariche di eco, si aggiungono progressivamente verso l’alto dell’estensione vocale (e se le voci femminili sono un anacronismo, possiamo semmai immaginarcele come bianche). Il colore si fa più sintetico nello stacco repentino che lega (sia a livello tematico che musicale, attraverso il tema dell’organo e del ‘miserere’) questa breve composizione al brano successivo.

 

8) SINFUL DOVE. Restiamo ovviamente in ambito ecclesiastico ma, la durezza della chitarra e del basso, mostrano subito il conflitto interiore della figura adesso rappresentata: una suora alle prese con le sue fantasie notturne, nel chiuso della sua stanza. Se dal punto di vista artistico l’immagine della ‘peccatrice’ non aggiunge niente di nuovo a tutto l’apparato letterario e iconografico che a essa si ricollega (da Eva a Maddalena, dalla Monaca di Monza alla giovane protagonista dell’Esorcista, possiamo incontrare migliaia di altre figure simili, più o meno consce delle loro pulsioni), sarà forse il brano seguente, quello che esplicherà in modo originale la presenza nel circo di questo personaggio.

Qui, la relatività cade addirittura nell’instabilità, descritta dai ripetuti cambi di valori ritmici a opera della batteria e dai frequenti contrasti a livello armonico. La strofa soffocata, geometrica, risulta quasi più claustrofobica della quarta traccia, quasi volesse prendere le misure della ‘gabbia’ in cui la peccatrice si è rinchiusa per sua volontà. La tastiera ‘cinguetta’ e zampilla liquida come sangue che scorre. L’incalzare (e il riprender fiato) singhiozzante degli altri strumenti sembra rimpicciolire volta a volta l’ambiente, strozzandolo, da stanza a letto (o altare?), da letto a corpo (o sacrario?), dove l’eucarestia acquista un significato morboso nello spazio ancor più ristretto (o immenso?) delle fantasie della suora. Al tempo stesso, le ripetute spinte dell’accompagnamento portano al climax e all’apertura del ritornello che, sul ‘volo’ della colomba, si distende melodicamente. La costruzione è ripetuta due volte, fino allo struggente (ma non inatteso, perché già annunciato come sfondo della seconda esposizione del tema della strofa) inserto lirico che riecheggia (questa volta prima con voce solista, poi a due voci) il ‘miserere’ introduttivo. La voce più acuta sfuma in suono elettronico che pare un dispiegarsi d’ali e s’intreccia all’ultima esposizione del ritornello; poi la colomba, cullata dalla chiusura eseguita da un organico per soli archi, si assopisce, forse alleggerita, ma non liberata.

9) SYMPATHY FOR THE DEVIL. Idealizzando la storia del teatrino come un concept lineare si può cadere nell’errore di trovare fuori luogo l’intrusione demoniaca degli Stones, quasi fosse uno stacco pubblicitario durante la visione di un film; paradossalmente, trattandosi di quadri separati, è proprio a questo punto che due figure si legano più che in altri momenti. Ora, le fantasie perverse della suora quasi sbeffeggiano il jagger-amarcord, dove chi trovava anormale una certa simpatia per il diavolo, resta sconcertato al discoprirsi del ‘velo’: l’uomo nudo protagonista delle fantasie della ‘colomba peccatrice’ è Cristo solo agli occhi di un’anima tentata, chi si nasconde dietro quest’apparenza è qualcun altro (ma cosa sarebbe peggio?), e torna il tema della relatività dell’orrore e del male in generale: è più anormale una donna dall’apparenza bestiale, ma capace di provare passioni e sentimenti, o un essere umano che soffoca i propri istinti naturali? L’apparizione del Diavolo è qui, forse, per dirci che a volte gli orrori avvengono anche nel chiuso della vergogna umana, a volte sono orrori solo a causa di imposizioni della cultura dominante, altre ancora, possono essere addirittura simpatiche incursioni nel mondo dei cosiddetti ‘normali’ per dimostrare loro quanto tutto può cambiare aspetto a seconda dell’angolazione.

Da un punto di vista strettamente musicale, la rielaborazione del brano (rispetto all’originale e ad altre versioni successive) fa perno più che altro sull’innesto di ricercatezze elettroniche, soprattutto a livello tastieristico (interessante, a questo proposito, lo stacco fra la prima e la seconda sezione della prima strofa, che pare rammentarci il luogo in cui ci troviamo attraverso una ‘spirale’ a immagine e somiglianza di una giostra) e vocale (gli effetti di raddoppio ‘mostruoso’ che danno la sensazione di veder emergere un volto spaventoso da dietro una maschera più rassicurante). 

 

10) CIRCUS OF DEATH. Il circo ha sempre un doppio volto. Popolato da esseri umani bellissimi in abiti luccicanti è anche spazio per belve feroci, ma sono semmai queste ultime, di solito, a soggiacere cinicamente alla volontà dell’uomo. Qui però sono i folli a prendere il potere. Il clown stesso è una figura inquietante: personaggio allegro e sfortunato al tempo tesso, antica ambiguità teatrale. E' sempre una maschera. E qui si tratta espressamente di un ‘circo della morte’. Niente bellezza e niente allegria. La schizofrenia permane solo a livello musicale.

Il brano inizia sommesso, privo di sonorità distorte, limpido e chiaro. Il contrasto con il testo verbale non è così straniante come quello del motivo bandistico iniziale ma, l’alternarsi con le sezioni dominate dal potente riff di chitarra in distorsione (una parziale trasposizione della Marcia Funebre di Chopin), è decisamente d’impatto.

11) FEAST OF FOOLS. Insieme alla prossima, è la traccia dalla struttura più tipicamente heavy, se non altro per il ruolo di maggior spicco coperto dalla chitarra, sia in ambito ritmico che come solista. Il brano divide le sue parti in modo tendenzialmente classico fra strofa e ritornello, ma mantiene un collage interno ‘rumoristico’ e una cornice festosa che fa riemergere nell’ambiente la banda e le voci dei bambini.

Siamo di fronte al ribaltamento tipico del Carnevale: cambiano le regole, non ci sono servi né padroni, il mondo si rovescia, ognuno ha l’abito che spetterebbe a un altro, adesso guidano i folli: con spirito sacrilego mutano anche la legge che, secondo il calendario liturgico, porrebbe una fine alla loro festa perché, la corsa dei folli, non è certo finita qui.

12) EVIL FREAKS. Come suddetto, eccettuata l’aggiunta di un bridge, il brano non si distanzia molto dal precedente, così come il secondo era appaiato al terzo. Meno complessi e sperimentali di altri brani perdono in interesse e originalità, ma guadagnano in impatto. Trattandosi di un concept non risulta poi un’ ‘anomalia’ il sentir riecheggiar qui la strofa di Pain. Il tema ricorre per parlare nuovamente di quel dolore che non poteva restare nascosto né sotto controllo ma, adesso, i mostri sembrano prendersi gioco di chi ne ha paura e vanno ormai fieri della loro condizione, della loro diversità.

13) AMERICAN PSYCHO. Sia questo brano che il prossimo non sono composizioni originali (la traccia 14 solo per quanto riguarda la musica) e, effettivamente, non legano con gli altri in modo così perfetto com’è successo per gli Stones. L’impronta stilistica è comunque ravvisabile per mezzo degli arrangiamenti (qui sempre nell’ambito della sperimentazione elettronica) e delle scelte tematiche: lo psicopatico ideato da Ellis è solo un pretesto, in realtà, per mettere in scena ‘orrori’ interni che si nascondono dietro altre maschere di apparente razionalità. Ciò che sembra essere messo in discussione è lo strapotere decisionale di certe potenze, sia politiche che religiose, che si arrogano il diritto di mantenere un ordine soggettivo attraverso il controllo dello schermo (This is like vegas This is for fun This is like the movies) - schermo subliminale e ordine illusorio - e invece accrescono la loro forza col ‘sangue’ e la ‘carne’ di esseri considerati ‘stupidi’ e inferiori.

Voci e strumenti si trascinano in avanti, affannose e disperate, quasi fossero un corteo di condannati a morte. Il ritornello suona fra parodistico inno nazionale e coro di schiavi al lavoro. L’elettronica si spinge al limite della dissonanza in una matassa di suoni che sembra simboleggiare il livello d’intelligibilità del messaggio in discussione.

Quando resta un piano ‘vuoto’, abbandonato da tutti gli altri suoni e rumori, e potremmo decifrare meglio gli slogans, ecco il gioco beffardo: di parole non ce ne sono più.

 

14) WEIRD WORLD. Qui la differenza stilistica è musicalmente ancora più marcata (sono rimasti più Cappanera in questo mondo bizzarro che Stones in compagnia del Diavolo). Testualmente ci si ricollega invece ai temi cari al gruppo tramite citazioni da Crowley (Everyone can be a star) o sfilate (una ‘jungla’) di esseri mostruosi e perversi.

Le strofe passano veloci e scattanti come carrellate d’immagini, il bridge fa salire con prepotenza la tensione (è la batteria che comanda) fino al ritornello lineare, semplice, accattivante e orecchiabile, jingle convincente, (forse) nonostante le sezioni a conclusione dei ritornelli siano più distese e atte alla riflessione, i suoni si fanno sempre più caotici e disumani e l’anima del circo, infine, ride di noi stessi, non più capaci di distinguere le promesse fatte durante il Grand Guignol da quelle dell’American Psycho. Implicitamente riaffiora nello spettatore/ascoltatore il dubbio instillato all’inizio: il vero spettacolo orrorifico è quello a cui stiamo assistendo o quello di cui siamo partecipi ogni giorno? Si è più liberi come esseri umani o come ‘mostri’?

Qui, la visione del mondo non si ricollega solo ai primi episodi del disco, ma anche all’inizio della trilogia di concept tramite il richiamo a Crowley (“Do What Thou Wilt”); non solo, ma quell’“Buy a new God when the old one dies” pare reintrodurre i temi mediani (medianici e mediatici) dell’Hi-Tech Jesus di Panic (nonché l’immaginario jodorowskyano che dal ‘teatro panico’ giunge sino agli ‘anormali’ del circo di Santa Sangre).

15) ABNORMAL. Se il lavoro si era aperto con la presentazione dei ‘mostri’ quali fenomeni da baraccone, dopo questa carrellata, non parrà ormai tanto ‘strana’ la conclusione che, in realtà, solo chi è ‘diverso’ può oltrepassare i confini dei comuni esseri umani, vincere la paura e conquistare la libertà: il ‘normale’ è limitato, appartiene a un mondo ordinato (da chi e perché?) e perfetto (davvero?) a cui si conforma solo per esigenza di sicurezza (ma, chiuso nella sua stanza, che fa?). Lo ‘scherzo della natura’ può esser visto come scultura vivente, artista anche solo grazie al suo corpo, e lo shock visivo è forte proprio perché non mediato da rassicuranti maschere e bugie. Questa volta, quando il piano resta da solo (su un tema annunciato pochi istanti prima da chitarra e tastiera all’unisono), le parole ci sono (samplers tratti da esibizioni di body performers) e sono ancor meno confuse del resto stesso delle liriche che si mischiano con le timbriche più sperimentali ed estreme; tutta la musica gioca fra richiami (l’attacco è una riproposta ‘speculare’ di quello che aveva introdotto la donna/bestia alla traccia tre) e intrecci di sonorità ormai al di fuori dei limiti (umani?); e lo show non si chiude sulle note d’apertura: la musica sfuma, lasciandoci addosso la sensazione che i personaggi che abbiamo incontrato non siano ancora stati congedati, o forse… after all, It Was You and Me

00. Introduzione

01. In Death of Steve Sylvester

02. Black Mass

03. Heavy Demons

04. Do what thou wilt

05. Panic

07. The Seventh Seal

Quest'analisi è comparsa sul sesto numero della fanzine ufficiale dei Death SS (In Death of Steve Sylvester - The Official Cult Magazine - The Sixht Seal), aprile 2008, nonché in forma ridotta, come recensione, sulle stesse pagine di Horror Magazine, il 5 dicembre del 2005 (vedi qui)