Jack Stark è morto una volta in Iraq, o meglio quasi morto, a causa di un proiettile in testa che per sua fortuna non lo ha ucciso. Ristabilitosi, non fa in tempo a costruirsi una vita normale che viene accusato di omicidio e rinchiuso in un ospedale psichiatrico, dove cadrà nelle grinfie di un medico dalle terapie piuttosto violente. Nel buio della cella di isolamento, di fatto un loculo, la sua mente sconvolta dai farmaci troverà una via d'uscita, lontana nello spazio. E nel tempo.

Con questo The Jacket, per una volta, siamo di fronte a una pellicola che contiene più di quanto prometta a partire dal trailer. Diciamoci la verità, titolo e storia a cui allude la presentazione non sono esattamente invitanti, in particolare sanno di già visto: si penserebbe all'ennesimo thriller soprannaturale, situato in manicomio, con talmente poco di nuovo che il titolo ha come unica possibilità riferirsi alla camicia di forza. Si intuisce che il protagonista avrà delle visioni e si teme di trovarsi di fronte all'ennesimo mondo soggettivo. Consoliamoci: niente di tutto questo.

La storia dietro il film è interessante per capirne i presupposti. Sembra infatti che all'origine vi sia la casa di produzione di George Clooney e Steven Soderbergh, che almeno sulla carta, vuole dare spazio a giovani talenti della regia, permettendo loro di lavorare con i mezzi e gli attori di Hollywood. È questo il caso di John Maybury, di fatto esordiente per il grande pubblico, sebbene abbia dalla sua parte buone prove, nella nativa Inghilterra, come regista indipendente e di videoclip. Il punto di partenza sono perciò alcune idee abbastanza buone, uno sviluppo non banale e una discreta cifra autoriale nella contenuta voce fuori campo, che cerca di dare un significato superiore alla vicenda raccontata.

Per quanto riguarda la sceneggiatura, sembra di vedere un vecchio e solido film di genere, sebbene Maybury abbia dichiarato che il suo lungometraggio non appartiene a nessuna categoria precisa. Gli eventi si susseguono in modo incalzante, qualcosa è lasciato da parte ma (per fortuna) svelato entro il primo tempo, insomma, se non infastidisce la tendenza generale al drammone, la pellicola scorre davvero bene. Un cast di tutto rispetto supporta la storia, non solo i protagonisti Adrien Brody (Jack) e Keira Knightley (Jackie), ma anche gli azzeccatissimi comprimari Kris Kristofferson e Jennifer Jason Leigh. Il film sfiora inoltre in più punti suoi predecessori nell'ambientazione, come Qualcuno volò sul nido del cuculo e la prima parte di L'esercito delle dodici scimmie, e se non è all'altezza di nessuno dei due, quantomeno riesce a render loro omaggio senza ricalcarli. La prova migliore viene probabilmente dal regista stesso, che rende le sequenze in isolamento davvero angoscianti e le colora di invenzioni visive notevoli. A queste ultime contribuisce Peter Deming, spesso direttore della fotografia per David Lynch.

L'impressione generale è che il film voglia dire più di quanto riesca a far arrivare, forse a causa delle numerose modifiche alla sceneggiatura, se non di interventi da parte della produzione. Sospetto in questo senso è il lieto fine, vagamente posticcio, negli ultimi cinque minuti.

Conclusione fin troppo consolatoria, ma più che altro colpevole di un’infrazione del patto narrativo, che aveva fino a quel punto saputo usare i viaggi nel tempo in maniera fantastica e non strettamente fantascientifica.