Una terribile tragedia si è consumata a Camp Crystal Lake. Tre decenni più tardi un gruppo di ragazzi si reca sul luogo della strage alla ricerca di un campo di marijuana per appropriarsi indebitamente delle cime con l'intenzione di arricchirsi. Accampati nell'oscura foresta, i cinque verranno fatti fuori da un uomo mascherato. Sei settimane dopo un giovane di nome Clay giunge a Crystal Lake a bordo della sua moto per cercare la sorella scomparsa. Si imbatterà nello spocchioso Trent che ha invitato alcuni amici a passare il week end nella villa di famiglia che si affaccia sul lago.

Di sicuro non fa bene a questo film l’essere uscito in concomitanza di quel vero fiume impetuoso e denso di ispirazioni qual è Il curioso caso di Benjamin Button di David Fincher, in sala appunto negli stessi giorni. Non gli fa bene perché il confronto che viene automatico a chi li ha visti uno dopo l’altro, come il sottoscritto, fa scomparire Venerdì 13 in un gorgo di banalità che lo sommerge fin dalle prime sequenze che ci mostrano il solito gruppetto di teen-ager attempati e accampati con le loro tende e i loro zaini nei boschi del famigerato camping di Crystal Lake, ormai in decadente disuso. Gruppetto le cui caratterizzazioni individuali risultano quantomeno imbarazzanti in fatto di banalità e di “sociologia del personaggio”. E naturalmente lo stesso trito copione si ripete col secondo gruppetto di tardo adolescenti mobilitati alla ricerca dei precedenti scomparsi. Appena il regista Marcus Nispel ce li presenta, subito non vediamo l’ora di vederli cadere uno a uno sotto il machete liberatorio di Jason, semplicemente per non vederceli più davanti. La domanda che ci appare alla mente subito dopo è la seguente: perché questo perverso bisogno di remake a tutti i costi, da parte delle case produttrici statunitensi? E dopo ben 10 sequel dell’originale Friday the 13th girato da Sean S. Cunningham nel 1979? Perché adesso Jason Voorhees e domani ancora Freddy Kruger, e prima ancora Leatherface (ricordiamoci che l’anemico e vuoto remake di Non aprite quella porta non è un caso sia firmato ancora dallo stesso Nispel, esordiente alla regia)? Perché questa necessità incomprensibile e ossessiva di rivisitazioni di sceneggiature già viste, di canovacci che a furia di essere utilizzati e stra-usati, sono diventati stracci da pavimento? Anche la motivazione puramente economica appare ormai poco sensata, dal momento che l’europeo [REC] ha sicuramente raccolto più spettatori e successi di critica nel vecchio continente, che altri remake targati USA. Credo che ormai questo del remake stia diventando semplicemente il sintomo di una malattia che ha colpito il cinema horror americano. Una malattia che si sta sciaguratamente cronicizzando, al cui confronto il genere horror europeo gode oggi come oggi di una salute di ferro. Che altro dire di questo Venerdì 13, portato avanti da un Nispel atono e grigio, che muove la macchina da presa come una trebbiatrice in un campo di grano, generando nello spettatore il dubbio di non avere neanche la patente per guidarlo? Che è un film in cui dialoghi, psicologie, pathos, adrenalina, tensione e giusta dose di ferocia catartica e costruttiva per ogni spettatore che si rispetti, se per di più amante del genere horror, sono tutti ingredienti certamente presenti e usati dal regista in questo film. Ma dosati con avarizia scozzese, e buttati lì distrattamente e tanto per gradire, proprio perché il genere è quello horror e non altro, lasciandoci tutti largamente a bocca asciutta. E diciamo crudamente la verità: che cosa ci si poteva aspettare da un realizzatore di noiosi videoclip musicali? Nispel non è poi aiutato dalla sciatta fotografia di Daniel Pearl, e nemmeno dalle musiche, a tratti fastidiosamente e inutilmente urlate di Steve Jablonsky. Non si sentiva proprio il bisogno di questo remake che finisce solo col danneggiare gravemente la memoria di un cult movie entrato nel mito e nell’immaginario cinematografico horror di intere generazioni.