Un gruppo di ambientalisti raggiunge l’Amazzonia peruviana per bloccare la distruzione di una parte della foresta e quindi per salvare le tribù che la popolano dall’estinzione. L’aereo che li trasporta precipita nella giungla. Gli attivisti vengono catturati da quella stessa tribù che volevano salvare, avendo quindi modo di conoscerne approfonditamente i costumi di un popolo così diverso da loro.

“ Si, va be’, lui cita Herzog per fare l’intellettuale del cazzo… per liberarsi dello spettro di aver rifatto Cannibal Holocaust.” così parla Ruggero Deodato riferendosi a Eli Roth in un’intervista rilasciata a Nocturno. E ne ha ben ragione, perché non c’è nulla di Fitzcarraldo o di Aguirre, furore di Dio in The Green Inferno se non gli stessi luoghi, il film rivela invece tutta l’ammirazione del regista statunitense per i cannibal movie italiani. Perché senza entrare nel dettaglio della miriade di citazioni mostrate in tutta la pellicola, basta anche solo il titolo a rimandare chiaramente a Cannibal Holocaust.

Molti sono anche i riferimenti a Cannibal Ferox: il risultato finale è così un pastiche rielaborato per adattarsi a un pubblico poco abituato alla brutalità e farcito con qualche nuova trovata. Roth ridicolizza un gruppo di giovani sprovveduti che pensa di poter salvare il mondo armato di iphone, ragazzi convinti di essere capaci di saper distinguere il bene dal male autorizzandosi così a imporre il proprio pensiero civilizzato a chiunque agisca diversamente, bulletti che vogliono costringere un popolo lontano per geografia e per tradizioni ad accettare una moralità che non gli appartiene. Una società in declino come quella occidentale che si arroga il diritto di umanizzare e di colonizzare un popolo di cui non conosce nulla, un popolo che per altro ha già da tempo trovato la propria dimensione umana, non può che meritare di estinguersi.

Diventa così rincuorante vedere cadere gli attivisti, ottusi alla frenetica ricerca dei quindici minuti di celebrità, uno per volta. La morte non arriva però con la stessa indolente brutalità che caratterizza i cannibal nostrani, nessuno dei trapassi è realmente efferato o disturbante. Roth è cauto nel confezionare questo horror e priva i suoi personaggi della volontà di fare del male per il "gusto di", nessuna violenza risulta così sgradevole perché giustificata – anche se sbrigativamente – dal denaro, dalla fame o dall’istinto di sopravvivenza.

Alcune scene sono poi confuse e per questo non lasciano godere appieno della mutilazione, persino il selvaggio popolo amazzonico non cede alla bestialità ma si limita a macellare le sue vittime quasi fossero gli impeccabili operai di un mattatoio. Incredibilmente sono bandite le frattaglie, da sempre elemento decorativo immancabile per il gore, così come bandito è il nudo, a causa dell’assurdo agire della censura statunitense che concepisce molto più oltraggioso e osceno un seno nudo che non una decapitazione. Dunque la più evidente differenza con il film di Deodato è che The Green Inferno non riconosce la bestialità della razza umana, non vuole prendere atto di quanto i gesti degli uomini, civilizzati o meno, possano essere insensati e feroci, omettendo così un’analisi necessaria e purtroppo sempre valida, ovunque la si voglia ambientare, sulla reale natura umana.

The Green Inferno regala tuttavia alcune scene gore ben riuscite alternate a momenti più grotteschi, ma manca di coraggio e per questo non è l’horror che avrebbe potuto essere. Nonostante questo Eli Roth ha comunque il merito di aver riportato l’attenzione su un genere troppo spesso maltrattato.

Curiosità: Durante il primo giorno di lavorazione, le riprese del film sono state interrotte da alcuni missionari certi che nel villaggio fosse arrivato Satana. Sono stati gli stessi indigeni ad allontanare i missionari, intimando loro di non tornare se non al termine delle riprese.