Quattro ragazzi si imbarcano per un tour dei posti strani negli Stati Uniti e, dopo l’allucinato racconto che viene fatto loro dal clownesco Capitano Spaulding, decidono di trovare l’albero sul quale è stato impiccato il Dottor Satana. Durante il viaggio danno un passaggio a Baby Firefly che li ospiterà poi nella sua casa. I quattro faranno conoscenza con la stranissima famiglia Firefly e avrà inizio il gran circo del terrore...

Esiste un detto, abbastanza diffuso, che recita: parla come mangi. Applicato a Rob Zombie potrebbe tranquillamente trasformarsi in: filma come suoni. Il film d’esordio di Rob Cummings (questo il vero nome del regista) è un carrozzone splatter allegro e scanzonato, un rutilante omaggio a un cinema ormai passato di moda, una visione che spazia dal capostipite Non aprite quella porta (di cui si propone come riedizione ben più viva e originale rispetto al lavoro di Marcus Nispel) fino a improbabili e oscuri B-movie mai giunti oltreoceano.

La pellicola, filmata nel 2000, non ha avuto vita distributiva facile, con una Universal Pictures che, titubante di fronte a certe efferatezze grafiche del regista, si è decisa solo nel 2003 e conseguente distribuzione in Italia un anno dopo, nel periodo estivo favorevole al recupero di pellicole horror.

Pensato come omaggio, quasi un album di cover punk-hard rock suonate con mestiere e sentimento, il film si sviluppa attraverso una vasta serie di luoghi comuni che spaziano dall’ambientazione (la stazione del Capitano Spaulding con i suoi evidenti richiami a Il tunnel dell’orrore di Tobe Hooper, la casa dei Firefly, l’ambiente sotterraneo) alla stereotipizzazione dei personaggi che tanto ci ricordano le collezioni di figurine splatter che andavano di moda qualche tempo fa in USA.

Operazioni del genere sono rischiose per più di un motivo: senso stancante e frustrante di dejà vu nello spettatore più smaliziato e, al contrario, smarrimento e mancanza di riferimenti filmici nel fan alle prime armi che può facilmente interpretare certi omaggi come implausibili buchi di sceneggiatura. Rob Zombie riesce a filmare in perenne equilibrio fra questi pericoli grazie alla poliedrica formazione culturale e professionale (produttore, compositore, art director, cantante, regista, scrittore, sceneggiatore...) che gli garantisce una serie di riferimenti di spessore in grado di non fare scadere il sentito tributo in pedissequa imitazione. A evidenziare l’intento del regista e le sue coordinate di riferimento basti in questa sede citare le origini di molti dei nomi dei personaggi, chiaro omaggio ai film dei Fratelli Marx.

Ecco quindi che, accanto al recupero di un volto basilare dell’horror come quello di Karen Black, Zombie opta per la via del fumetto caricaturale: recitazione urlata (e vi siete persi la pazzesca risata in lingua originale di Sheri Moon), fotografia dai colori saturi e iperrealistici, scenografie da Zio Tibia presenta, costumi strappati di peso da un comics anni settanta. Tutto questo girato con gusto e con alcune intuizioni stilistiche notevoli (la sospensione prima dello sparo, a esempio) e senza perdere di vista certo malsano gusto per il macabro con buoni riferimenti al travestitismo/sado-maso che pongono il film agli antipodi dei vari cloni di Scream, anche per merito di una sufficiente caratterizzazione dei vari personaggi che evitano certe pastoie dei tipici bei ragazzi da slasher anni novanta.

Naturalmente il maggior pregio del film diventa anche il suo più grande limite in quanto nulla di nuovo viene detto sulla nozione di orrore e sullo stato di questo genere cinematografico nell’anno 2004 e chi è in cerca esclusivamente di queste nozioni farà bene a stare alla larga da questo film.

Chi è invece interessato a un’ora e mezza di sano splatter revival, chi balla al ritmo dei Cramps e dei Plasmatiscs, chi conosce film come Non violentate Jennifer, Killer Klowns from outer space o L’ultima casa a sinistra potrà entrare in sala tranquillo, in piena sintonia con lo spirito zombiesco.