- Se mi dici dove abiti, ti accompagno a casa. - L’offerta mi sembra talmente allettante che quasi mi vengono le lacrime agli occhi. Poi, però, una piccola sagoma grigia esce dai rifiuti sparsi e va a strofinarsi sulle sue caviglie. È un gatto. Qualcosa mi risuona nelle orecchie: pericolo! Sbagliato!

Perché quel gatto io l’ho già visto. E non dovrebbe essere qui, ora.

E invece eccolo lì, che si arrampica veloce e va ad accoccolarsi sulla spalla del Professore. Potrebbe essere un altro micio? Forse sì. Deve esserlo, visto che l’altro è stecchito. Non sarà mica l’unico gatto grigio del quartiere.

- Coraggio. Per strada mi racconti com’è andato il primo giorno nella nostra scuola, e quanti compiti a casa ti hanno dato - dice il Professore, e mi tende una mano grande e pallida.

Oddio! I compiti. Solo la parola basta a terrorizzarmi.

Però, a pensarci bene, "compiti" significa scuola e casa, è una parola calda e accogliente e familiare. Tutto ciò di cui avrei bisogno ora…

Faccio un passo verso di lui, e proprio allora un’altra voce mi ferma:

- Non gli credere.

È sbucato dall’ennesimo angolo (ma quanti angoli ci sono in questi vicoli?). È magro magro, indossa una sciarpa multicolore e ha uno zaino in spalla. So chi è.

- Empo… Empedo… - inciampo più volte sul nome.

- Doc - mi mozza lui. - Adesso però vieni qui, svelto.

Sono interdetto. Empedocle è un bambino, non lo conosco, e a guardarlo non fa tutta quest’impressione. Sembra uno di quelli che attirano i bulli come mosche le cacche di cavallo. Però, senza motivo, sento di potermi fidare.

- Dovresti venire anche tu con me, De Mori - fa il Professore infilando le mani in tasca. Ho freddo, mi brucia il braccio e forse ho la febbre. E voglio andare a casa. Muovo un altro passo verso l’adulto.

Poi noto due cose.

La prima è che la testa del gattino non è semplicemente appoggiata sulla spalla del Professore: piuttosto, penzola liberamente, come la testa di una marionetta senza le dita dentro.

La seconda è che il bavero del cappotto si è aperto un po’ di più. E non sono muscoli quelli che guizzano sotto la pelle del Professore. Sono cosine che navigano dentro bubboni bitorzoluti.

Ciò che accade dopo lo vivo quasi al rallentatore.

Io che corro all’indietro; io che inciampo e vado col sedere per terra; l’adulto davanti a me che si toglie il cappotto; il bambino che si fionda in mezzo e grida qualcosa; il gattino col collo spezzato che soffia; il cane lebbroso comparso al posto dell’uomo che si prepara a spiccare il balzo; il bambino che infila per terra un pennarello dopo l’altro, proprio davanti a me, le punte rivolte verso l’alto; il cane che ringhia e sbava ma indietreggia; Empedocle – Doc – che mi prende per un braccio e mi trascina via. Poi, il tempo torna a scorrere alla solita maniera.

- Vedi quelle scalette lì in fondo? - mi fa mentre gli arranco dietro. Le vedo: saranno cento metri, è l’ingresso di un seminterrato. - Corri fino alla porta, ma non voltarti e non guardare mai ai lati della strada.

- Perché? - non posso fare a meno di urlare, ma Doc si è già fermato a tirar fuori qualcos’altro dallo zaino. E i pennarelli si sono liquefatti nell’asfalto come candele consumate, e il mastino si prepara a spiccare il balzo. E allora corro.

Non tardano molto ad arrivarmi i sussurri da dietro i cassonetti. Sembra vento, poi nel vento si formano parole, miagolii, farfugli. Faccio del mio meglio per non guardare, ma mica è così facile.

hai sbagliato strada

dove vai, bambino

meooow

la mamma si preoccupa

Sul primo gradino metto male il piede, inciampo e rotolo malamente fino alla porta di metallo rossa. Batto la testa e vedo le stelle.

Poi, da qualche punto abbastanza vicino alle mie spalle arriva un guaito di dolore e un fiotto di aria fetida, e sto per voltarmi quando la figuretta di Doc irrompe al mio fianco e apre la porta.

- Dentro! - mi fa, appioppandomi uno spintone. Io caracollo oltre la soglia e mi giro appena in tempo per vedere il mastino col muso imprigionato in quello che sembra un rotolo di carta igienica, prima che l’uscio mi si chiuda davanti con uno schianto. - Ti avevo detto di non voltarti - mi rimprovera Doc mentre inserisce il paletto.

- Ma perché? E cos’erano quelle voci?

Da fuori arriva una serie di tonfi, come di qualcuno che prenda a pugni la porta ma senza troppa convinzione. Il ragazzino mi tende la mano.