Piove.

Il cielo grigio si scioglie in lacrime di tristezza, cola lungo le facciate delle case e gonfia le pozzanghere in strada, trascinando polvere e immondizia.

Odio queste giornate. Parcheggio l’auto e butto uno sguardo fuori. Un condominio tozzo e sgraziato, pareti tristi e pittura che si spella come una schiena bruciata dal sole. L’auto di servizio e l’ambulanza sono già arrivate, i lampi blu si accendono e spengono, bolle di luce nella nuvola di pioggia.

Scendo e corro sino al portone, con un giornale in testa, evitando i nastri di protezione. Nell’atrio c’è la solita atmosfera. Il medico legale prende appunti su un blocco notes, due poliziotti se ne stanno appoggiati al muro, in attesa di chissà cosa. La scientifica scatta foto, illuminando l’intonaco scrostato e scarabocchiato. L’aria sa di muffa, di cipolle fritte e di sudore.

Avrei dovuto fare l’avvocato. Ora sarei seduto in una comoda scrivania, pronto per farmi una pausa caffè e due chiacchiere. Ma non era quello che volevo, dieci anni fa.

Il fascino della polizia, il gusto per il crimine.

Nessuno aveva parlato di un piccolo commissariato di periferia. Spacciatori all’angolo della strada, case popolari, prostitute in gonna rossa che battono in pieno giorno, agitando borse di plastica.

— Non abbiamo toccato nulla. — La voce di Ghini, il mio vice, mi fa tornare di colpo al presente. Il volto è teso. L’uniforme, una taglia di troppo, gli pende floscia addosso. Con un cenno del capo mi indica il pianerottolo delle scale. Mi avvicino.

Il cadavere di un uomo. Appoggiato con la schiena al muro, le gambe distese a angolo retto e la testa inclinata. Sembra un bambino addormentato. La parete, i gradini, persino la ringhiera: tutto è coperto di sangue. Gli occhi, sbarrati e senza vita, fissano il pavimento, la bocca è aperta in un grido muto. Mi sporgo dalla tromba delle scale. In fondo, al piano interrato, un corpo di donna, scomposto come una marionetta senza fili, a faccia in giù in un lago rosso. I capelli galleggiano attorno al capo come un’aureola di morte.

— La moglie — sussurra Ghini, nemmeno fosse in chiesa. — E’ stata lei. Lo ha inseguito per le scale, pugnalandolo alla schiena finché non è rotolato giù. Era già morto, spalle al muro, ma lei ha continuato a colpirlo. Coltellate su tutto il corpo, con furia. Senza una pausa. Poi si è tagliata la gola e si è buttata di sotto.

L’aria è densa e immobile. L’odore di sangue fresco si mescola agli altri. Il verde delle pareti fa venire in mente un obitorio. O un mattatoio.

— Abitavano qui?

Ghini alza gli occhi al cielo. E’ sudato e a disagio. — Terzo piano.

I flash illuminano la scena, accendono i colori. Le immagini si stampano sulla retina, vivide e crudeli. Scavalco il corpo e salgo. Sul pianerottolo ci sono tre porte. Una è spalancata, le altre socchiuse. Posso quasi sentire gli sguardi curiosi e impauriti degli inquilini, acquattati dietro l’effimera sicurezza di un portone blindato.

Entro.

Pavimenti datati, carta da parati nel corridoio, mobilio dignitoso. Un paio di pezzi di buona fattura. A parte qualche soprammobile rovesciato la casa è in ordine. Media borghesia, ambienti puliti. Faccio tre passi al centro della sala. Le finestre sono socchiuse, la luce spenta. L’unica bolla di luce, lampi di colore intermittenti, arriva dalla televisione, accesa e muta. Volti parlano e discutono senza far rumore.

— Una vera tragedia, non trova?

Cazzo!

Il cuore salta un battito. Mi giro di scatto. Al limite della pozza di luce c’è un uomo. Alto, vestito di scuro, capelli neri radi pettinati all’indietro. Se ne stava lì, in piedi, zitto e immobile. Si fa avanti, uscendo dall’ombra.

— Le ho fatto paura? — Inclina la testa da un lato, osservandomi incuriosito. La voce è un raschiare fastidioso.

Cerco di riprendermi. L’adrenalina mi circola nel sangue, selvaggia.

— Accidenti, direi di sì — rantolo. — Chi è? Che stava facendo qui?

Agita una mano come per scusarsi. — Il padrone di casa. Abito di sopra. Sono sceso a vedere i danni. Sa, con tutto quel trambusto… — Il viso si contrae in una smorfia teatrale di dispiacere, il tono è simile a una cantilena stonata. — Non sapevo cosa avrei trovato. Lei è della polizia, suppongo. Immaginavo che prima o poi quei due sarebbero finiti così…

— In che senso?