1) GIVE’EM HELL. Campanelle e grancassa introducono un’esortazione corale ripetitiva. Le strofe sono orecchiabili, il ritornello ossessivo. Un brano ‘anthemico’ che pare non apportare niente di nuovo. Un metal di stampo classico inframmezzato qua e là da intrusioni elettroniche. La sensazione di estraneità rispetto al resto dell’album dipende dal fatto che questo brano è stato inizialmente scritto come inno della Federazione Italiana di Wrestling e il disco vero e proprio comincia dal brano successivo.

 

2) VENUS’ GLIPH. Ci sorprende un riff violento, dai ritmi serrati, accompagnato da un classico rullante, a cui risponde la voce. Già dal bridge sale l’orchestrazione, fino a raggiungere il massimo riempimento nel ritornello, così come succedeva alla Signora di Babilonia e alle varie incarnazioni della Dea che hanno preceduto questa Venere simbolo di “armonia, grazia e bellezza”; il ritornello si distende e si ripete due volte, dando al brano un sapore diverso rispetto a quello che era parso all’inizio. Ma, all’improvviso, si torna indietro, e quest’assemblaggio di suoni ci riporta al finale di Humanomalies. La schizofrenia armonica denota una Grazia più crudele di quella presentata nel primo verso, “there’s no way to modify/our role in this game”. È un gioco surreale, che richiama subito la partita a scacchi giocata dal cavaliere Antonius Blok e dalla Morte nel celebre film di Ingmar Bergman, a cui rimanda il titolo dell’album. Gli archi in chiusura ricordano addirittura quelli di Sinful Dove, dando al brano una tinta gotica in più.

 

3) DER GOLEM. Un violino accompagnato da un effetto di vinile consumato e dei campanelli sono in contrasto col pezzo violento che segue. Non è un vero e proprio concept. Come nel precedente album, le figure si susseguono senza un filo narratore, presentandosi semplicemente come le varie facce dell’oscuro. La storia del Golem è gridata. Il gigante d’Argilla dell’Antico Testamento, servo silente, saggio e folle, creato dal potere della Cabala è plasmato per salvare gli uomini dall’Inferno, ma, privo di emozioni, distrugge con ‘cuore di pietra’ tutto ciò che incontra sul suo cammino. Il ritornello catchy, nondimeno pesante, raffigura l’incedere del mostro che, nonostante “he frighten the crows”, “si sente solo”. I suoni sono ancora quelli di Humanomalies e i giochi di campionamenti richiamano la filmografia sul tema. L’assolo finale, tagliente, è quasi coperto dalla ripresa del ritornello, e il finale giunge inatteso.

 

4) SHOCK TREATMENT. Questo è il brano in cui cominciamo a renderci conto cosa succede e succederà avvicinandoci alla fine. Il sigillo non richiama solo Bergman, ma anche il brano dell’Apocalisse da cui il film era a sua volta ispirato: il giorno del giudizio, la fine del mondo o, metaforicamente, di un percorso umano. Il cerchio si chiude e, al tempo stesso, il suo perimetro ripercorre qualcosa di già avvenuto, pur mantenendo un alone di contemporaneità. I suoni, il piano e gli arrangiamenti, adesso, non sono più quelli del finale di Humanomalies, ma quelli della parte iniziale. Dal bridge, addirittura, l’orchestrazione comincia a tornare ancora più indietro, verso Panic, così come i cori tribali. Riff e assoli si spingono ancora più in là, verso il metal più classico e immediato, e il feedback della chitarra si collega alla traccia seguente.

 

5) ABSINTHE. La partenza dal chorus rende il brano orecchiabile sin dall’inizio, ma il riff entra possente e violento, come l’effetto della bevanda celebrata. Quasi in ogni verso del testo compare una metafora che la richiama, da “La fata verde” a “Lo spirito di smeraldo”, da “La mela dei poeti” a “Sogno narcolettico”. La strofa, accompagnata dal basso, sfocia in un bridge sempre orecchiabile. La voce è carica d’effetti, distorta come la realtà filtrata dall’assenzio, soprattutto nella parte finale. Il sound classicamente heavy di chitarra e batteria risulta in contrasto con le continue intrusioni elettroniche.

 

6) ANOTHER LIFE. La ballata lenta, tetra, pianistica, alla The sleep of reason, ma meno carica d’effetti, ci lascia addosso una sensazione surreale, perché potrebbe anche non sembrare un brano del gruppo, come se quel “I need another life” fosse quasi un richiamo semmai al futuro e al cerchio che si chiude per trasformare l’esperienza fatta in qualcosa di diverso, per una volta, con ottimismo: “I’m still waiting for my glory days/saying to myself I will find a way/I don’t wanna stop and carry on/even if I have to fight alone”. I campionamenti introducono la traccia successiva.

 

7) PSYCHOSECT. Cancellare i dogmi, resettare il cervello e ricercare la propria spiritualità individuale attraverso lo studio della filosofia e della religione. Attingere liberamente a tutte, per adattare a noi stessi gli aspetti che più si addicono al nostro carattere e alle nostre esigenze. Solo questo ci porterà a far parte di “a new elite/with non barrier/and no defeat”. Il richiamo adesso è a Crowley e a Do what thou wilt, anche se musicalmente i rimandi non sono così precisi.

Ecco che, se dal passato l’arpeggio della chitarra è in pieno stile trash, la strofa prosegue soffocata, pensierosa, mentre il bridge viene sbattuto in faccia in modo violento, una verità da accettare o meno senza riserve, così come il ritornello, fino all’espansione nell’elettronica e nel futuro.

8) HECK OF A DAY. E' il brano di maggior presa immediata, ma i successivi ascolti ne svelano sfumature e arrangiamenti che lo rendono uno dei più interessanti dell’album nonché dell’intera produzione della band. Il riff seventy, vero e proprio hook del brano, possente e melodioso al tempo stesso, risulta ampio ed efficace nel controbilanciare la strofa compressata che gli risponde puntualmente, verso dopo verso. Il ritornello catchy è orchestrato da ogni strumento senza troppe sbavature, per dar risalto alla melodia del cantato. La partita prosegue, ma l’ottimismo delle liriche precedenti è scomparso: “Life has give me a chance/but I’ve threw it away”. L’assolo piange e cade nelle note basse quasi a richiamare il riff, per poi risalire alla ripresa del ritornello. Poi silenzio. Spari campionati, e un passaggio di chitarra introduce un bridge in controcori. Il gran lavoro della batteria, che sfocia nel riff cadenzato dell’inizio, si perde nel finale, interminabile, e un nuovo assolo, giocato più sulle note basse e lunghe, ci accompagna fino al classico, incerto ed effimero finale sfumato.

 

9) S.I.A.G.F.O.M. “S.I.A.G.F.O.M” è un acronimo per “Satan is a good friend of mine” e tutto il testo richiama vagamente quello di “Sympathy for the devil”, la cover degli Stones utilizzata nell’abum precedente.

Un veloce riff si trascina sotto la strofa, dopo una lunga intro. L’orecchiabile bridge con controvoci si avvicina al vecchio stile della band e il ritornello corale risulta molto melodioso. Incontriamo poi un intervallo tastieristico, accompagnato dal feedback della chitarra. La batteria è in 4/4 e l’assolo di chitarra si interrompe su di un bridge cantilenato, su piano solo ed effetti percussivi. Gli ammiccamenti vocali, teatrali e sensuali nell’interpretazione del Maligno, sono in stile glam anni ’70.

10) THE HEALER. Andiamo ancora più indietro nel tempo, con un riff che richiama il metal delle origini, a cavallo fra i ’60 e i ’70. La strofa, sottovoce, è poi accompagnata solo da tastiera e percussioni, mentre l’orchestrazione parte dal bridge aperto e melodico. Questo fantomatico ‘guaritore’ potrebbe essere il seduttore sgusciato dalla traccia precedente, così come un più moderno psicomago alla Jodorowsky (Panic). Difatti, un sound più contemporaneo viene associato al ritornello quasi anthemico, sempre da far risalire alla genesi del metal, mantenendo quella schizofrenia compositiva che contraddistingue i brani sin da prima dell’inizio di quest’album. L’assolo di chitarra è quasi un parlato, e il riff chiude il pezzo all'improvviso.

11) TIME TO KILL. Ritmi tribali. Voce chiocciata. La melodia è assente e pare affacciarsi solo per pochi istanti, ma sempre violentemente, nel ritornello classico. Veniamo sommersi da campionamenti vocali e, come in Humanomalies, finisce tutto in rumore. Il cantato si sviluppa in cori dal retrogusto street, anthemici, quasi conte, filastrocche, e il fraseggio ‘pare’ dover andare avanti all’infinito. La brevità, invece, sembra voler dare risalto alla ‘suite’ successiva, ma anche alla risoluzione che il personaggio di Steve Sylvester ha preso in modo più o meno aperto nel corso della partita: “I need to be re-cycled”, “I need a fast mutation”, “I need to change direction/I need a real life”, lasciandoci la convinzione che quel “kill” sia da riferirsi alla caratterizzazione - in senso teatrale - stessa, e alla nuova direzione che il settimo sigillo imprimerà all’ “argilla” cabalistica. Ma, intanto, la band ci riserva quello che è probabilmente l’ultima celebrazione del personaggio.

 

12) THE 7TH SEAL. Tutto l’album è un omaggio all’omonimo film di Bergman, così come all’Apocalisse, e i continui richiami alla morte si raccolgono in questa sorta di suite progressiva che, se vogliamo risalire all’operato dei Death SS, potremmo associare a Black Mass, per quanto riguarda il secondo disco, oppure addirittura a Terror, se volessimo tornare al punto di partenza, mischiata in un calderone ricolmo di stili e rimixata dalla modernità (se non dal futuro).

L’inizio è lento, la voce sommessa, ancora campionamenti da film horror e sezioni strumentali composte da un riff di basso e giochi di percussioni elettroniche, mentre le liriche sono completamente basate sul testo dell’Apocalisse e i sette sigilli. La nuova intrusione della voce denota maggior sicurezza, fino all’attacco, maestoso, dell’intero organico che, come un’orchestra sinfonica, va quasi a coprire il ritornello corale, ampio e melodico. Dopo una ripetizione variata della sezione, incontriamo l’assolo di flauto in stile progressivo (eseguito da Clive Jones dei Black Widow). La terza variazione introduce un nuovo assolo prog (stavolta di sax, è sempre Jones) e, il sottofondo epico si strugge, nota dopo nota, fino a chiudere il cerchio e a tornare al piano iniziale che, sull’ultimo accordo, piega il capo al pessimismo. Le liriche della seconda parte si configurano come il testamento musicale del vampiro che abbiamo cominciato a conoscere anni e brani fa, l’ultima testimonianza - forse - del marchio Death SS, la ricapitolazione di ciò che è stato fatto, una dichiarazione di sconfitta, ma anche un ironico colpo di coda nel concludere che, in ogni caso, “life is just a mistake”.

00. Introduzione

01. In Death of Steve Sylvester

02. Black Mass

03. Heavy Demons

04. Do what thou wilt

05. Panic

06. Humanomalies

Quest'analisi è comparsa sul settimo numero della fanzine ufficiale dei Death SS (In Death of Steve Sylvester - The Official Cult Magazine - The Seventh Seal), gennaio 2009.