Oh Dae-soo, padre e marito indisciplinato, viene improvvisamente rapito e tenuto segregato per ben 15 anni. Durante i tre lustri di prigionia viene drogato, ipnotizzato, tenta la fuga e il suicidio, si sbronza di televisione e di sete di vendetta, aumentata ancora di più dall’omicidio della moglie.

Finalmente liberato senza spiegazione alcuna, si imbatte nella giovane cuoca Mi-Do. Fra i due sorge uno strano amore, ma la giovane ragazza potrebbe far parte della cospirazione che ha tenuto imprigionato Oh Dae-soo per tutto quel tempo…

Trovare le parole per raccontarvi un capolavoro è e sarà sempre più difficile e doloroso (ma quanto più appagante) che scribacchiare qualche frase per mettere all’indice i difetti dell’ultimo film uscito nella sezione due stelline stentate.

Perciò, non posso che cominciare con le… formiche. Esatto, formiche. Quelle che il nostro (anti?)eroe, il nostro vecchio/giovane vede uscire dalla sua pelle, quelle formiche che usano il suo volto per le loro mirmidoniche battaglie mentali, probabilmente proprio gli stessi imenotteri che già turbavano l’ottimo Matt Johnson (aka The The) nell’album Burning blue soul del 1989.

Matt allora delirava (e Delirious è proprio il titolo della canzone) queste strofe:

I've got a million ants under my skin

They're all digging a hole where the rain can't get in

My world comes out when the sun disappears

But my blood is turning sour with insect fear.

Ecco, quel sangue che inacidisce e fermenta può essere un buon punto di partenza.

Eh sì, perché la vendetta è sempre una brutta bestia e finisce con il non ripagarti mai per tutto quello che ha preteso. Finisce con l’avvelenarti il sangue.

Il regista lo sa bene e organizza uno spietato e sapientissimo teatro-trattato sulla vendetta, afferrando lo spettatore (davvero mai così innocente e sprovveduto come in questa occasione) per i capelli, per il cuore, per gli attributi sessuali trascinandolo in un allucinato gioco delle parti dove niente è MAI quello che sembra.

Chi riuscirà finalmente a riscuotere la sua vendetta? E si può, una volta assaporato l’amaro (e freddo, ha avuto 15 anni di tempo per raffreddarsi) calice continuare a vivere come se nulla fosse?

Le risposte a queste due domande vi lasceranno allibiti e inchiodati alla poltrona.

Ci sono altri, tanti, troppi percorsi di lettura per un’opera che giunge come fulmine a ciel sereno a scuotere l’addormentata stagione di cinema tutta presa a trattenere il fiato nell’attesa del circo Sith. E mentre trattieni il fiato ti arriva improvviso il pugno allo stomaco.

Old Boy come ipnosi fincheriana? Possibile, improbabile? C’è una scatola che deve assolutamente rimanere chiusa, come in Se7en. C’è un gioco assurdo e perverso con ruoli e meccanismi precisi, come in The Game. C’è il dolore come via d’illuminazione, di risveglio, di consapevolezza, come in Fight Club. E c’è, infine, una stanza chiusa e impenetrabile, come in Panic Room. Casualità, sicuramente. Troppe, certamente.

Ma Old Boy è anche quanto più di distante si possa pensare dalla concezione occidentale. Trovate sangue, amore, morte, sesso, vendetta, saggezza e tragedia laddove a Hollywood prosperano anemia, infatuazione, coma cerebrale, petting, vigliaccheria, politically correct e drammi minimalisti.

La simmetria di Park Chan-wook è inesorabile e il talentuoso filmaker non esita a usare ogni possibile espediente o trucco per allestire il tutto, dallo split screen al piano sequenza, da plongée sature di pioggia e ombrelli a lunghissime, estenuanti risse in carrellata che trovano degno alter ego solo nell’impossibile scazzottata di carpenteriana memoria. E lì come ora, quelle botte aprivano gli occhi.

L’intensità di questo oriente (e ricordiamo anche il recente Ferro 3 e, insieme, poniamo opportuna distanza da certe evanescenti proposte ectoplasmatiche del Sol Levante e dintorni) è lo spaventoso segno di un asse che continua inesorabilmente a spostarsi, di un tramonto di una civiltà (la nostra, persa negli ultimi bagordi) che saluta il sorgere (ma è un’alba cinematografica e culturale già in atto da tempo) di una nuova, vitale e “diversa” sensibilità.

Impossibile menzionare tutti i momenti intensi e le trovate formali e contenutistiche, bisogna almeno sottolineare un uso del sonoro (quindi non stiamo parlando solo di musica) straordinario, una lezione da mandare a memoria, umiliante per ogni “THX-fan” del mondo.

Cosa c’è di horror puro? Poco, certo. Ma un poco che basta e avanza, un poco/tanto fatto di denti estratti a martellate, di insetti che escono dalle vene, di emoglobina sparsa quando è necessario e di formiche giganti che siedono pazienti in metropolitana.

Ma sono orpelli, trucchi, specchietti. Non devono distrarvi dal porvi le giuste domande perché, come dice uno dei protagonisti, è solo ponendosi le giuste domande che si può procedere, capire, vendicare.

Sorpresa conclusiva che chiude il cerchio in maniera implacabile e post-finale che nessun viso pallido dalla schiena schiacciata da millenni di Chiesa avrebbe mai osato mettere in scena.

Capolavoro.

Ricordate:

Se ridi, il mondo ride insieme a te.

Se piangi, piangi da solo.