Avrebbe potuto essere il disco dell’anno, oppure farci gridare un liberatorio “Bentornati!”, al pari, se non altro, di quel Death Magnetic dei Metallica (leggi qui) che ne ha risollevate le sorti dopo il deludente St. Anger (leggi qui) e invece, questo Sounds of the Universe sconforterà gran parte dei fan di vecchia data della band, così come i semplici ascoltatori. Per la prima volta dopo quasi trent’anni di gloriosa attività. E il secondo e il terzo ascolto, obbligatori per i lavori più sperimentali dei Depeche Mode, non cambiano le carte in tavola. Non vengono evidenziati particolari sfuggiti a un primo, fugace passaggio, non vengono rivalutati brani considerati scarsi in partenza. Tutto resta calma piatta e la prima impressione, ovvero quella che si sia tentato disperatamente di far rivivere le atmosfere passate attraverso sonorità moderne, senza esser riusciti a creare niente di abbastanza memorabile, non ci abbandona fino alla fine.

In Chains parte con una lunga intro elettronica. E’ un brano che resta quasi nudo sotto il cantato di Gahan, poco espressivo. Non molto diverso da Hoel to feed (il secondo brano non è di Gore, ma porta la firma di Dave Gahan, Christian Eigner e Andrew Phillpott), molto più breve, ma sempre votato all’elettronica; è a partire da qui che comincia a evidenziarsi l’andamento generale del lavoro: suoni vintage, che ricordano i Depeche Mode di qualche anno fa, rimescolati attraverso espedienti moderni. Per trattarsi dei primi due brani rimane un po’ di amaro in bocca, però. Le aspettative erano sicuramente molto più alte.

All’arrivo del singolo, Wrong, viene quasi il sospetto che la colpa sia da imputarsi a una tracklist poco azzeccata e che, in seguito, arriveranno brani migliori. Wrong (già in rotazione insieme al bellissimo video dalla seconda metà di febbraio) è difatti un brano di presa immediata e di sicuro effetto. Non storico e nemmeno interessantissimo, ma cattura l’attenzione dell’ascoltatore non fosse altro che per i suoni e le ritmiche accattivanti, le melodie orecchiabili costruite su strutture sofisticate e la voce di Gahan che si spezza in modo struggente sempre al punto giusto, a cui fa eco quella più soffocata di Gore, ritrovando la giusta miscela fra le due timbriche.

Sonorità che ci ricordano il periodo d’oro, filtrate attraverso la modernità. Questo resta il filo conduttore, scadendo però di nuovo in tracce scarse, come Fragile Tension. Qui torniamo addirittura ad alcune sonorità dei primissimi album. Il filtro della modernità è meno presente, se non in alcuni brevi passaggi, e si punta più che altro, apertamente, a una sorta di ripresa delle sonorità tecno-pop primordiali. Little soul, ballata gotica in cui si sente forte la firma di Gore, soprattutto nella trama a due voci fra Gahan e lo stesso, strizza ancora l’occhio al passato, soprattutto nel modo in cui il fraseggio della chitarra elettrica riesce a fondersi con le tastiere. In Symphaty, un brano di pop elettronico orecchiabile e danzabile, vuole forse richiamare invece in modo un po’ troppo aperto le sonorità dei Depeche Mode a cavallo fra la fine degli ‘80 e l’inizio dei ’90. Il problema è che qui non si tratta di un reinventarsi restando sempre fedeli a se stessi (quello a cui i Depeche Mode ci hanno sempre abituati), come era successo con Playng the Angel (leggi qui). La differenza sta nella quantità di vena creativa presente in quest'ultimo album e in quella quasi assente del nuovo. Anche andando a pescare la traccia migliore di Sounds of the Universe, non arriviamo alla qualità del primo estratto (Precious) di Playing the Angel.

Con Peace si torna apparentemente ai primi ’80, finché non veniamo colpiti da un coro dal retrogusto liturgico, compensato dal cantato di Gahan nella strofa (che ci fa ricordare il titolo del brano), carico di colori e drammatizzazioni. Se non fosse appunto per la voce di Gahan, potrebbe anche non sembrare un brano della band. Per dirla con un eufemismo, non è certo uno fra i pezzi più riusciti dell’album.

Come Back risulta più dura e secca, ipnotica e ossessiva, spoglia, come succede in linea di massima a tutti i brani che portano la firma Gahan, Eigner, Phillpott. Segue il breve intermezzo strumentale di Spacewalker, per arrivare a Perfect, dove ci ritroviamo di nuovo di fronte al disperato tentativo di distillare attraverso la contemporaneità il tipico sound del gruppo. Anche qui non siamo certo sulla punta più alta.

Miles Away/The Truth Is, altro brano scritto e firmato a tre mani da Gahan, Eigner e Phillpott, presenta addirittura passaggi atonali, che però non riescono a raggiungere i risultati ottenuti nel medesimo modo dai brani del precedente album. Tuttavia, il ritornello catchy, riesce a tratti a risollevare l’andamento. Con Jezebel arriviamo alla tipica ballata cantata da Gore, in cui, purtroppo, avvertiamo il bisogno di ripetere un qualcosa che non si è riusciti a ricreare in modo adeguato. E il cerchio si chiude con Corrupt: torniamo in piena elettronica, sonorità, rumori e melodie in stile Depeche Mode, senza però percepire la presenza del gruppo nella sua consapevolezza.

Ci auguriamo che la vena non si stia esaurendo e che si tratti solo di un semplice episodio, ma di brani che passeranno alla storia, qui, in definitiva, non ce ne sono. In tutta sincerità, questo è quanto. Probabilmente ci sarà chi griderà al capolavoro, giusto perché stiamo parlando di chi stiamo parlando, ma non credo che questo album si farà ascoltare a più riprese, una volta tentati i famigerati tre ascolti. Verremo semmai presi dall’istinto di riascoltarci altri lavori precedenti. Certo, il sound è impeccabile, ma se avessero mancato anche in quello, ci sarebbe stato da chiedersi se pure i Depeche Mode non fossero stati rapiti dagli alieni come gli Uriah Heep (leggi qui) e non si trattasse nient’altro altro che di cloni.

E se la sottoscritta dovesse nuovamente essere presa d’assalto dai fan più sfegatati di un gruppo a causa di una stroncatura, sappiate che c’è stato un tempo in cui, a Pasqua, chiedeva alla nonna di mettere l’ulivo benedetto anche dietro al poster di Martin Gore. Ma tanto darete ugualmente la colpa a me, perché non ce lo metto più…