Tutti nutrivano un mare di aspettative per questo nuovo Alice in Wonderland. Il marchio di Tim Burton ha contribuito a offuscare quel logo Disney un po' antitetico all'immaginario visivo connesso ai lavori del regista, e il box office ha premiato l'operazione con una valanga di biglietti staccati e molte recensioni entusiastiche. Inutile dire che un recensore sente questo tipo di pressione, l'hype alimentato da critica e pubblico è un po' come una pistola puntata alla tempia di chi scrive. E tuttavia, a costo di andare controcorrente e ignorando la spada di Damocle, timidamente mi sento costretto a scrivere che Alice nel Paese delle Meraviglie non riesce a stare al passo con le enormi aspettative nutrite dagli appassionati.

Non si tratta di una novità per Burton, che pare avere dei seri problemi con i remake animati. Fra i suoi ultimi lavori, infatti, La fabbrica di cioccolato si attesta fra i peggiori, mentre tutti gli altri lavori, dalla Sposa Cadavere a Sweeney Todd, risultano invece di pregevole fattura. E se in Alice in Wonderland i fan di Burton speravano di ritrovare le atmosfere gotiche ottocentesche ormai suo marchio di fabbrica e la fantasia visiva dark di un Nightmare Before Christmas, allora si rischierà di rimanere sonoramente delusi, perché dalle immagini il tocco fatato del regista non traspare, quasi che a guidare le riprese fosse stato un regista fantoccio ingaggiato da Disney mentre al buon Burton non rimaneva altro che il ruolo di semplice yes-men. Quindi evitate di cadere nell'equivoco e sappiatelo fin dall'inizio: in questo film Burton c'è, ma non si vede. Chiarita la questione più importante, andiamo con ordine.

Alice nel Paese delle Meraviglie è ambientato diversi anni dopo il primo capitombolo della bambina nel buco del bianconiglio. La piccola, ormai ventenne e alle soglie di un matrimonio di convenienza organizzato dalla madre, non ha alcun ricordo del suo precedente viaggio, che riaffiora di tanto in tanto solo attraverso dei sogni confusi. Ma proprio prima di concedere la sua mano di malavoglia all'altezzoso e poco affascinante lord di turno, la ragazza viene richiamata nel paese delle meraviglie dal bianconiglio. Qui scoprirà che le cose sono molto diverse da come se le ricordava in precedenza, ogni meraviglia ha assunto una tinta più malinconica e disperata: la regina di cuori (qui la Regina Rossa) è semplicemente una regnante oppressiva da destituire a tutti i costi, e il Cappellaio Matto interpretato da Johnny Depp assume quasi il ruolo di capo dei ribelli. E' scritto che solo Alice può sconfiggere la Regina e il suo malefico drago addomesticato, ma per farlo dovrà ritrovare prima la propria fede nell'impossibile.

Come vediamo da questa breve sinossi, è difficile parlare di un riadattamento dell'opera di Lewis Carroll. Piuttosto, l'operazione è più simile a una sterile vampirizzazione. I personaggi principali, dallo Stregatto al Brucaliffo, ci sono tutti perché devono esserci, l'intero film è un gioco di rimandi che usa l'immaginario di Alice come una stampella per sopperire a delle mancanze che risiedono nel cuore della trama e nella qualità di una storia che, al contrario di quanto suggerisce il titolo, pare essere in difetto proprio di quel "sense of wonder" che amiamo della storia originale (o anche dei lavori di Burton in generale). Il processo narrativo, invece, qui è meccanico e convenzionale a livelli quasi imbarazzanti, appesantito da dialoghi poco ispirati e da botta e risposta telefonatissimi. Ci si aspetterebbe un po' di nonsense in più, un po' di follia da un lavoro di Burton. E invece il Cappellaio Matto a dispetto del suo nome è più colorato che matto, il linguaggio insensato della favola viene liquidato con poche parole buttate alla rinfusa e un po' tirate via, mentre gli attori, anche quelli animati, faticano a catturare lo spettatore con le loro interpretazioni ingessate e i personaggi che impersonano, non si elevano mai dallo status di macchiette o riempitivi.

La storia, ignorando il lascito del titolo, potrebbe benissimo essere quella delle Cronache di Narnia. Chi, d'altronde, guardando con sospetto un'Alice in armatura completa e "spada-che-solo-lei-può-uccidere-il-drago" non ha pensato agli evidenti parallelisimi fra questi due film? Un'eroina predestinata che si ritrova in un mondo parallelo, braccata da una regina malvagia che dopo mille peripezie riuscirà a ritrovare la fede in se stessa e sconfiggere il male nell'immancabile battaglia campale finale. Un canovaccio già sentito? Senza dubbio. Ma a Burton avremmo potuto perdonare la mancanza di originalità se bilanciata dal suo innegabile tocco di genio. E invece nisba, come in uno dei tanti filmetti fantasy in circolazione (targati Disney o no), "what you see is what you get", niente di più. Come da copione, Alice esce vittoriosa dallo scontro e ritorna a casa forte di una nuova consapevolezza che solo il classico viaggio dell'eroe è in grado di dare. Tuttavia, la crescita emotiva di Alice fatica a trovare un proprio appiglio nelle esperienze vissute nel Paese delle Meraviglie, e si esce dal cinema pensando: "Sì, va bene, ma tutta questa storia a cosa è servita?", come se ogni avvenimento fosse slegato da uno scopo logico. A ben vedere la chiave di lettura c'è, ma bisogna strizzare gli occhi per scorgerne i contorni sfocati. La lasciamo scoprire a voi spettatori, e ci riserviamo di avere la nostra lettura personale.

Concludiamo con il più grande rammarico di un film che poteva dare tanto: per essere un film ambientato in un paese delle meraviglie, Alice in Wonderland ha davvero poco di meraviglioso, e il Sottomondo (così è chiamato dai suoi abitanti) pare una landa un po' desolata, vuota, poco "divertente", molto lontana dal sense of wonder che per esempio garantiva il colorato aldilà di La sposa cadavere. La computer grafica è splendida, i costumi pure, ma qui non si tratta di mera apparenza. Mancano i contenuti, manca l'anima, manca la volontà di divertire. Il film è privo di scintilla vitale, e potrebbe benissimo essere uno dei peggiori lavori fantastici mai partoriti dalla mente di Burton. Se volete godere dalla visione del film, concentratevi con tutta la vostra potenza mentale e cercate di dimenticare la sudditanza psicologica della pellicola sia dalla fiaba di Lewis Carroll sia dal supporto creativo di Tim Burton. L'unico marchio che conta qui è uno solo: Disney.