Lui, mentre io prendo confidenza col manichino schiaffeggiandolo un po’, torna verso l’armadio e prende una valigetta di metallo; la appoggia sul lettino e la apre, mettendo in mostra un bel campionario di tirapugni, manganelli, coltelli, rasoi. “Quando avrà finito di scaldarsi le nocche”, dice, “provi con uno di questi. Magari con…” e prende un lungo coltello da cucina col manico color ebano, “il mio favorito”.

Tengo il coltello tra le mani, lo guardo, lo rigiro, e poi, con una decisione che non avrei mai creduto d’avere, lo pianto nel manichino; alla base del collo. Godo, sì godo, sentendolo penetrare nel caucciù, lo rigiro lentamente, come ad allargare la finta ferita. Il biondino sogghigna, sembra soddisfatto, e io sento la rabbia che passa attraverso quella lama e che, con progressione, mi abbandona. Funziona.

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È da alcuni mesi che passo tre sere la settimana, e a volte anche di più, a martoriare manichini. Chiaro che mia moglie è all’oscuro della cosa; lei crede che segua una qualche sorta di corso in palestra e, anche se passo meno tempo con lei, non si lamenta: da quando ho iniziato, ha notato, sono molto più tranquillo a casa e, con gioia, i nostri sfoghi adesso hanno cambiato forma: dal litigio siamo passati al sesso.

A dire il vero, ultimamente il metodo non è più efficace come prima; alla fine delle sedute sento di avere ancora qualcosa da sputar fuori.

Faccio presente la cosa al mio trainer, e mi dice che se l’aspettava e che ho resistito nel settore bianco fin troppo. “Oggi passiamo a quello giallo” dice, annoiato come sempre. A differenza dell’altra stanza, qui è tutto ricoperto di piastrelle bianche. Al centro, sotto un tavolo di metallo, c’è un piccolo scarico, come quelli delle docce, verso cui, in leggera pendenza, converge il pavimento.

Il manichino, disteso sopra il tavolo, è nascosto da un lenzuolo; mi rimbocco le maniche della camicia e, come faccio per scoprirlo, il tipo mi branca la mano. “È più facile col lenzuolo, le prime volte. E si metta questo” e mi passa un grembiule di pelle lungo fino ai piedi. Poi avvicina un carrello dove, al ripiano superiore, c’è la solita collezione di lame, e a quello inferiore fanno capolino nuovi attrezzi: una sega, un bisturi, cesoie, punteruoli. Io vado sul sicuro: afferro il coltello, quello da cucina, e lo pianto nel ventre del fantoccio. Lo ritraggo d’istinto, perché la sensazione della lama che penetra è diversa dal solito, strana; e poi, subito dopo, un forte odore di vecchio, di malsano, come il fiato di un diseredato giunto al suo capolinea, mi colpisce con la violenza di un ceffone. Io guardo il tipo, che sogghigna e annuisce. Prima ancora di capire che sotto il lenzuolo non c’è affatto un manichino, sferro un altro colpo, e scopro il piacere intenso dell’acciaio affilato che si fa strada tra le carni e graffia le ossa, vibrando, lamentandosi quasi.

E, di nuovo, provo quell’esperienza liberatoria, come la prima volta, di ansia, stress, tensione, che defluiscono, attraverso quella lama, in modo genuino.

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Oggi sono incazzato. Ho accompagnato Laura al supermercato e, come accade sempre più spesso da un po’ di tempo a questa parte, abbiamo litigato; figuratevi, la discussione è partita da quale dentifricio comprare: sbiancante o antitartaro? L’ho riportata a casa, appena mi è stato possibile, e sono corso qui, al centro. Ho la faccia tesa, nera, grugnita. Riccioli biondi se ne accorge, e prima che io possa aprir bocca, ordina: “Sala blu” e, seduto dietro alla sua scrivania, mi indica la porta con l’indice della sinistra.

Cosa c’è di speciale, è come l’altra, mi dico appena ci metto piede. Piastrelle lustre, scarico al centro, tavolo con sopra il cadavere coperto. Guardo il trainer in cerca di una spiegazione, lui si limita ad annuire. Va bene, diamoci da fare: arrotolo le maniche della camicia, mi infilo il grembiule e mi metto all’opera. Oggi sono veramente incazzato, ho bisogno di un po’ di sangue: prendo il punteruolo dal carrello, e lo ficco nel cuore con tutta la forza che ho. “Che cazzo succede?!” strillo lasciando la presa. Il corpo, sotto al lenzuolo, si contorce sbattendo con violenza gambe e braccia sull’acciaio del tavolo, con un tonfo. Poi, dopo un paio di fremiti, si ferma, immobile. Guardo ancora il biondino, col suo immancabile ghigno: “Rilassante, non è vero?”, mi dice.

Mi appoggio al carrello, quasi rovesciandolo, e vomito sul pavimento. La testa gira, ma solo per un momento, perché non appena mi rimetto dritto, e guardo il punteruolo che spunta da quel torace come l’asta di una bandierina, un senso di calma, di tranquillità e, perché no, di soddisfazione, mi sostiene. Respiro profondamente e, nel silenzio, non posso fare a meno di chiedermi cosa troverò oltre la quarta porta, quella con la banda rossa, e quando sarò pronto a scoprirlo.