Ci sono arrivato in una ventina di minuti; non è lontano, proprio dietro l’ospedale dove mia madre ha passato gli ultimi giorni della sua vita, neanche più in grado di riconoscere la propria immagine allo specchio.

Salgo al terzo piano, come mi ha detto la donna al telefono, apro la porta di destra e mi ritrovo nella reception. Il pavimento è in legno lucido e scuro e, da alcune applique lungo le pareti, la luce si diffonde come un aroma dolce. Mi avvicino al bancone in fondo alla stanza, da dove una ragazza dai capelli neri, raccolti in un piccolo chignon, e occhiali con la montatura di metallo, sorride. “Buonasera” mi dice.

“Buonasera” rispondo, “sono Molini, ho chiamato poco fa”.

“Certo signor Molini. Si accomodi, sarò subito da lei” e mi fa segno verso una fila di sedie allineate alla parete di destra come tanti bei soldatini.

Mi siedo sulla prima, quella più vicina alla ragazza, mi sporgo in avanti appoggiando i gomiti sulle ginocchia e, da sopra il tavolino che ho di fronte, afferro una rivista, l’unica. Per un paio di minuti sbircio, alternativamente, la rivista e la ragazza; ma in realtà non sono concentrato su nessuna delle due, piuttosto cerco di capire in che posto sono finito.

Pulizia, ordine, silenzio, sono le prime cose che registra il mio cervello. Non so perché, ma mi aspettavo una clinica, o qualcosa di simile; invece il bianco non predomina, e l’aria non è satura del puzzo di disinfettante. E non ha neanche l’aria di una palestra, visto che manca il festival di tutine aderenti, portachiavi da mettere al collo, integratori, creme, calzini. Poi, interrompendo il filo dei miei pensieri, la ragazza viene verso di me, lisciandosi con le mani la gonna grigio antracite, e dice che mi posso accomodare oltre la porta alla sinistra del bancone. Saluto, con un cenno della testa, ed entro.

“Prego, signor Molini” dice un uomo sulla cinquantina, tozzo e con enormi borse sotto gli occhi. “Mi chiamo Marsi”.

“Piacere” rispondo stringendogli la mano; poi ci avviciniamo a una scrivania color mogano, all’altro capo dell’ufficio. Lui si siede con le spalle al muro, in una monumentale poltrona di cuoio, e io, alzando leggermente i pantaloni, mi metto nella sedia dall’altra parte. “Cominciamo subito” dice prendendo un foglio di carta da un cassetto. Lo appoggia sul tavolo e, dopo essersi schiarito la voce, inizia a riempirmi di domande: vuole sapere quanto peso, quanto sono alto, cosa mangio, cosa bevo, se fumo; poi dove abito e che lavoro faccio, la composizione della mia famiglia e il rapporto che ho con loro, cosa voglio fare della mia vita, che carriera m’interessa. Cose così, insomma; spara sentenze con l’interrogativo finale a una velocità spaventosa; e scrive tutto su quel pezzo di carta, con una grafia piccolissima, tenendo la punta del naso a pochi centimetri dal foglio. Alla fine, quando inizio a essere stanco della tiritera, si ricompone e mi sorride. “Abbia pazienza, ma tutte queste informazioni sono necessarie a capire quanto lei abbia bisogno di noi”.

“Credo molto” dico io accavallando le gambe e, nel tentativo di apparire rilassato, mi appoggio allo schienale della sedia. Altrimenti non sarei qui, penso poi.

“Lo credo anch’io” ribatte Marsi; questa volta è serio, molto. “Vede” dice appoggiando i gomiti al tavolo e sporgendosi in avanti, “il mio compito sta nell’accertare urgenza e convenienza di un nostro intervento. Dalle risposte che mi ha dato, posso dirle, in tutta franchezza, che la situazione è critica”.

Critica?, penso sgranando gli occhi. Confesso che la cosa ha assunto un po’ l’aria della farsa; riconosco di avere una vita stressata, ma da lì a definirla critica, ce ne passa. Marsi sembra essersi accorto dei miei dubbi perché, dopo aver di nuovo schiarito la voce, mi dice, con sguardo accigliato, che la migliore cosa è una dimostrazione del loro metodo; “vale più di mille parole” dice sentenzioso, “e poi, cosa che più mi sta a cuore, sarà in grado di saggiarne subito gli effetti”. Detto questo, si alza, si avvicina e mi esorta a seguirlo.

Passiamo attraverso un’altra porta, e dal suo ufficio ci troviamo in una specie d’anticamera con un ascensore. Marsi preme il pulsante e spiega, con la voce che risuona nel piccolo ambiente, che al piano di sotto troverò uno dei trainer a ricevermi; poi, quando le porte dell’ascensore si aprono, se ne va salutandomi. “Ci vediamo dopo” lo sento dire con tono alto quando sono già nella cabina.