Non sono un tipo che s’impressiona, ma devo ammettere che tutto quel mistero un po’ mi preoccupa; di sicuro è una sceneggiata per far colpo sulla clientela, mi dico, più per farmi coraggio che per convinzione. Fatto sta che mi trovo in un ascensore in discesa, ormai sono le undici di sera e, mio malgrado, fra poco dovrò seguire una seduta dimostrativa di chissà quale metodo terapeutico. In più, come se tutto il resto non bastasse, ho una moglie a casa che mi aspetta, e che vedendomi, ora posso dirlo, gettarmi le braccia al collo non sarà la prima cosa che farà.

Mi ritrovo all’estremità di un salone rettangolare: pavimento di linoleum e un rumore di fondo sordo, come il motore di un frigorifero; o di un grosso condizionatore. Ad attendermi in un camice bianco, c’è un uomo smilzo dai capelli biondi e ricci. “Benvenuto” dice tenendo le mani infilate nelle tasche. “Mi segua”.

Mi precede all’altro capo della sala, fischiettando un irritante motivetto, dove ci sediamo ai lati di una scrivania che sembra uscita da una svendita d’arredamenti per enti statali degli anni cinquanta. Attorno a noi, come fossero dipinte sulle pareti, ci sono quattro porte di metallo, ognuna con una banda di colore diverso che l’attraversa: bianco, giallo, blu, rosso; chiuse. Il tipo tira indietro la sedia, con un rumore stridulo, allunga le gambe fin sotto la scrivania, incrocia le braccia e mi guarda dritto negli occhi. “Prima di cominciare” dice, “mi potrebbe raccontare la sua giornata?”.

Io mi riassetto sulla sedia, scomoda come un paio di scarpe strette, cercando di capire primo, che cosa, in particolare, gli interessa della mia giornata, e secondo, perché gli interessa. Ma lui mi anticipa. “Naturalmente, mi riferisco ad episodi che l’hanno irritata; o simili”.

Buffo, quel giorno di cose irritanti me ne sono successe. La lite con mia moglie, tanto per cominciare; la mattina ho avuto una non piacevole discussione con un collega, che avrebbe dovuto rivedere la mia relazione; anche una telefonata della banca, circa un problema con i miei assegni, aveva contribuito all’innalzamento della pressione sanguigna. Gli sparo tutta la bibbia e aspetto; che sia una specie di psicologo, provo a indovinare. No, niente di più sbagliato. Si alza sospirando annoiato, fa segno di imitarlo, con un gesto della mano, ancora più irritante del fischiettare – se possibile, ed entriamo nella porta con la striscia bianca.

Lui si appoggia ad un lettino al centro della stanza, molto simile a quelli negli ambulatori medici, incrocia nuovamente le braccia, e comincia. “Molto spesso la gente tende a soffocare la rabbia, l’ansia, lo stress. E questo, ormai tutti lo sanno, è un grave errore; sa com’è, prima o poi si finisce con l’esplodere” e apre, come i petali di un fiore che sboccia, le dita della mano destra. “Alcuni, poi, cercano sfoghi alternativi; dei surrogati: palestra, tennis, collezionismo, eccetera, eccetera, eccetera”. Finisce con uno sbuffo prolungato, come un pallone che si sgonfia.

Comincio a sentire l’urgenza di accendere una sigaretta, aspirare lunghe boccate, rilassarmi su di una poltrona, e magari bere qualcosa di forte. Il tizio annoiato, un grosso ventilatore che volteggia pigro sopra la mia testa e, a coronare il tutto, un silenzio rotto solo dal rumore del generatore, mi stanno facendo innervosire. Se non arriva subito al sodo, mi dico, alzo i tacchi.

“Il nostro metodo” attacca ricciolo, “sta nell’evitare tutti questi espedienti. Noi facciamo sfogare la rabbia nel modo più naturale possibile: lasciando che predomini. Quante volte abbiamo desiderato di dare un bello schiaffo a nostra moglie; oppure di prendere a pugni l’automobilista che ci ha tagliato la strada. O peggio”. Raggiunge un armadio a muro, lo apre e tira fuori un manichino; meglio: un busto montato su una specie di trespolo con le ruote. Lo fa scorrere, attraverso la stanza, fin davanti a me.

“Gli dia un pugno” dice.

“Come prego?”

“Su, su: un bel diretto al mento. Immagini sia il suo collega, quello della relazione, e immagini che gliene abbia fatta un’altra, l’ennesima”.

Esito, non capisco. Poi lo colpisco. “Andiamo, sono sicuro che sa fare di meglio” esclama il tipo alzando la voce. E io lo colpisco ancora, ma stavolta con energia e, lo confesso, per un momento immagino abbia la faccia del fottuto collega.