The cure: un disco inaspettato dopo la trilogia Pornography (1982), Disintegration (1989) e Bloodflowers (2000) con cui si credeva conclusa la discografia dei Cure.

Lo stesso Robert Smith aveva scelto il titolo Bloodflowers ispirandosi a una raccolta di lettere in cui pittore norvegese Edvard Munch descriveva le proprie opere come una mera ripetizione degli stessi soggetti. Un titolo, quindi, che suggeriva l'inaridimento dell'inventiva, la crisi, la conclusione di un ciclo. L’epilogo che lasciava l'amaro in bocca a milioni di fan.

The Cure, invece, prosegue il discorso.

Ma come? Di cosa parla questo album?

Del tempo che scorre inesorabilmente, di promesse, di fallimenti e dei sentimenti che mutano col passare delle primavere. Parla di futilità e di memoria. "L'amore ci salverà/ il tempo ci guarirà e ci farà dimenticare/ Lo avevi promesso" si dice in The Promise. E possono non tornare alla mente altre canzoni della magica trilogia (e non solo), come nella splendida e struggente Last Dance in Disintegration: “Non credo che ci baceremo/ come facevamo/ quando la donna/ era solo una ragazza”.

Il sound dei Cure si lega alla perfezione con le liriche, rafforzandole e conferendogli vita: un suono avvolgente e pacato in pezzi come Anniversary e Going nowhere, oppure esasperato nell'ossessiva Lost: ancora una volta la musica dei Cure... è quella che ci si aspetta. L'evoluzione, che ovviamente s'è compiuta, ma non ha stravolto l'impatto emotivo dei pezzi della band, raggelandolo - magari - nel vuoto virtuosismo o scialbandolo in schitarrate soporifere. C'è una freschezza straordinaria, invece, che da sola è in grado di far palpitare il cuore di chi la ama, magari, dai tempi di Boys Don't Cry. La freschezza che ci si può aspettare da un Signor Peter Pan come Robert Smith.

The cure è un album compatto e completo, poliedrico ed elettrizzante. Una conferma sorprendente. Non ci sono contaminazioni rispetto allo "stile Cure": il fraseggio di chitarra (flanger) e basso rimane nitido, la batteria del tutto "funzionale". Ci sia permesso di parlare di "stile Cure" perché la band inglese non è cold-wave, e nemmeno propriamente dark-sound. Sono i Cure, e quasi dispiace, per motivi di recensione, doverli etichettare in qualche modo. Anche in questo nuovo album c'è la consueta, ottima, miscela di sonorità cupe e canzoni apparentemente spensierate e melodiose. Frammenti di una vita serena che diventa un ricordo sfaccettato in via di disfacimento. Una sorta di gustosissima schizofrenia musicale. Una schizofrenia che contagia, e ci offre l'ennesimo viaggio nella mente di Robert Smith, nel suo mondo dalle tinte scure in cui risuonano ninnananne dense di mistero e tristezza, e dove fantasia e realtà confondono il loro significato.

Dove forse siamo davvero in bilico, alla fine del mondo.

Robert Smith
Robert Smith

La vena espressiva di Robert Smith rimane la stessa, senza compromessi.

Non si smentisce, canta sussurrando le sue canzoni d'amore, pronto poi a esplodere per esprimere tutta la sua rabbia. E come ogni opera dei Cure non è esagerato parlare di album concettuale, dove tutte le suggestioni delle opere precedenti, dall'esistenzialismo di Camus alla visione allucinata di Kafka, si fondono nella faticosa ricerca interiore e nell'autoanalisi; "I can't find myself/ I can't find myself/ I can't find myself" dice, ancora, Lost.

Nemmeno quest'album può essere un epilogo. L’intelaiatura musicale è fitta e Robert Smith sembra aver raggiunto un equilibrio straordinario. Rimane l'irruenza combattiva, un'irruenza e una carica che non sono più rabbia incontrollata, e restano il dolce tormento e l’amarezza, che si distinguono al tempo stesso dalla languida accettazione della sconfitta che sprigionava un album come Faith, primo su tutti.

Con The Cure non inizia, né tantomeno prosegue, una parabola discendente, come alcuni avevano previsto dopo Bloodflowers (album ingiustamente sottovalutato, spesso con una certa spocchia quasi che tanta "resistenza" artistica abbia creato, in qualcuno, una notevole carica d'invidia). Un album che riesce ancora a emozionare con la forza e l'entusiasmo dei primi lavori di Robert Smith. Un album carico di tinte dark e di angosce esistenziali.

Un'opera grandiosa ed energica.

Non può essere l'epilogo. Così speriamo.