Joanna è una donna dall’incredibile successo e dal modesto matrimoni: splendida, nel fiore degli anni, a capo di una serie di trasmissioni dallo share altissimo, causa un malaugurato incidente viene licenziata e subisce un tracollo nervoso.

Il marito, Walter, un avvocato che ha sempre vissuto all’ombra del successo di sua moglie, preme per trasferirsi da New Yoprk a Stepford, quella che sembra essere l’ideale comunità suburbana immersa nel verde.

Presto Joanna si renderà conto che a Stepford molte donne come lei, rampanti e aggressive manager in carriera, si tramutano in ideali casalinghe, perfette sotto ogni punto di vista, sia in cucina che a letto, prese di peso dalla metà degli anni cinquanta per quel che riguarda modi e vestiti.

Quando tale “malattia” colpirà anche una sua amica radicalmente femminista e un gay dai gusti eccentrici, riducendoli a vuote marionette, Joanna comincerà a preoccuparsi seriamente scoprendo che...

Ira Levin è uno degli autori più saccheggiati dal cinema e non possiamo dare torto a Hollywood: ogni romanzo di questo grande scrittore nasce già strutturato per una eventuale trasposizione cinematografica. The Stepford Wives aveva già conosciuto una riduzione cinematografica piuttosto convincente nel 1975 grazie all’intelligente e acuta ri-scrittura di William Goldman.

Purtroppo questa volta lo sceneggiatore è quel Paul Rudnick che già in passato aveva dimostrato di trovarsi a suo agio nelle commedie leggere (In & Out) e che quindi filtra il materiale proposto da Levin dando risalto ai momenti più disimpegnati e lasciando perdere il risvolto più inquietante (e in definitiva orrorifico) dell’intera vicenda. A filmare uno script già edulcorato è Frank Oz, sorta di Tim Burton meno geniale, meno gotico, meno ironico, meno dissacrante... A produrre tale accoppiata intravediamo un branco di vecchie volpi dello show-biz, gente come Bozman, Rudin o Scherick abituata da decenni a massimizzare gli incassi e minimizzare le perdite, il tutto sotto l’egida buonista e massimalista della Dreamworks di quello Spielberg che Jodorowsky aveva decritto così bene in una intervista di qualche tempo fa.

Si potrebbe terminare la recensione già qui, se siete un filo smaliziati avrete capito che razza di film può uscire dati gli ingredienti di base. Ma siccome siamo cattivi allargheremo la piaga con il nostro coltellaccio.

La donna perfetta è un film caramelloso e pastelloso come la fotografia (splendida!) di Rob Hahn, soffocante e perfettino come le scenografie (superbe!) di Jackson De Govia, criolinico e plissettato come i costumi (fantastici!) di Ann Roth.

Una pellicola dove la cornice conta più della storia, anzi, dove la cornice è la storia. Laddove Ira Levin ghigna su certa società americana Rudnick sorride appena, nei punti in cui lo scrittore sfodera gli artigli e graffia a fondo, lo sceneggiatore sembra un gattino appena nato, quei momenti fra la tensione e la scoperta macabra che erano importanti nel romanzo sono qui evaporati sotto la pressione della “commedia a tutti i costi”. Ed ecco quindi la ricerca del lieto fine come stile di vita, l’inserimento di Bette Midler e Roger Bart quali ulteriori rafforzi comici, l’aggiornamento delle tematiche e delle morali di un romanzo vecchio (1972) ma per nulla datato.

Lo spettatore esce dalla sala frastornato da colori e sapori, da balletti e gag alle volte irresistibili, da una galleria di personaggi memorabili interpretati da un cast eterogeneo e azzeccatissimo: Cristopher Walken sembra nato per la parte del mad doctor e sta vivendo un periodo di forma strepitosa (merito della cura Fat Boy Slim, osserveranno i più attenti....), Glenn Close recupera vecchie eco di dalmaziana memoria e sforna una mielosa e allucinata capo villaggio, Bette Midler re-interpreta il solito suo ruolo ma lo fa benissimo e Roger Bart brilla per simpatia in una parte (l’artista gay radical chic) di solito esposta al logorio dello stereotipo. Notevoli anche i titoli di testa, fra i più innovativi e azzeccati dai tempi di Seven.

Rimane quindi la sensazione di una buona commedia che avrebbe anche potuto essere virata verso il macabro e, ahimè, la sensazione è che ciò non sia avvenuto non tanto per scelta artistica quanto per volontà di assicurarsi un incasso al botteghino più ampio e trasversale. E’ una malattia che sembra colpire sempre più produttori e registi sui quali un tempo avremmo puntato una discreta sommetta: dispiace vedere, a esempio, un talento come Steven Spielberg votare la sua DreamWorks a una costante opera di appiattimento ed evasione, evitando qualsiasi tipo di ricerca dei contenuti per favorire unicamente lo sviluppo della tecnica e dell’estetica, in una esasperazione sterile di quel metacinema che aveva fatto la fortuna del regista ai suoi esordi.

Da vedere con un occhio allo schermo e uno al romanzo, cercando di inserire con la propria fantasia i momenti più forti che, presenti sulla carta, sono scomparsi sulla pellicola e sforzandosi di bypassare alcuni dolorosi vuoti di sceneggiatura.