Lo so: lo sento da come ansima terrorizzata, un attimo prima di tornare del tutto in sé e tendere le cinghie che la stringono.

Nel buio, urla.

Io taccio, e aspetto.

Lei urla ancora, strattonando i legacci che le imprigionano polsi e caviglie. Urla a lungo, fino a rimanere senza respiro.

La sento boccheggiare per riprendere fiato, e aspetto il terzo urlo. Un urlo lunghissimo, straziante, che si spegne in un singhiozzo disperato.

Piange in silenzio, ora, e agita appena le cinghie, tremando senza più convinzione, quasi rassegnata alla loro resistenza.

Nel buio più completo, accosto la bocca al suo orecchio.

- Ssshhh - mormoro.

Lei ricomincia a urlare, dibattendosi e cercando di allontanarsi da me.

Io attendo.

Clara non urlava.

Non ha mai urlato, nel buio: nemmeno la prima volta.

Si era svegliata in piena notte, piangendo sommessamente, tanto piano che perfino io avevo fatto fatica a sentirla. Ero scivolato fuori da sotto al letto e mi ero sporto su di lei, silenzioso come un’ombra nelle tenebre.

"Ssshhh" le avevo mormorato all’orecchio.

Si era azzittita all’istante.

"Che succede?" le avevo chiesto con un sussurro.

"Ho fatto un sognaccio" mi aveva confidato sottovoce, tirando su col nasino.

"Era solo un incubo" l’avevo tranquillizzata. "Non devi aver paura dei sogni: non possono farti male. Torna a dormire."

"E se ritorna?"

"Non tornerà. Resto qui io a proteggerti."

Lei aveva esitato, incerta.

"E tu chi sei?" mi aveva domandato.

"Io sono l’uomo nero."

Lei aveva trattenuto il fiato ed era rimasta in silenzio a lungo.

"Quello che vive sotto al mio letto?" mi aveva chiesto infine.

"Sì."

Aveva tirato di nuovo su col naso, più rilassata.

"E ora resti qui con me?"

"Resto qui, con te" le avevo promesso. "Adesso dormi, e sogna solo cose belle."

Si era riaddormentata quasi subito, e non si era mai più svegliata piangendo: non una sola volta, nei dodici anni seguenti.

- Chi c’è qui? - urla lei. - Chi sei? Fatti vedere!

- Io sono l’uomo nero - le rispondo sottovoce.

Ride, ma la voce le trema.

- L’uomo nero non esiste - azzarda.

- Quand’è l’ultima volta che hai guardato sotto al tuo letto?

- Che cazzo vuoi da me? - mi aggredisce.

Clara non ha mai detto “cazzo”.

Mai: nemmeno in quell’ultima sera.

Aveva sedici anni, quella sera, e con lei c’era il suo compagno di classe. Non era la prima volta che studiavano assieme, ma era la prima volta che rimanevano a casa da soli. Non so come si chiamasse lui. Portava scarpe da ginnastica, e puzzavano di gomma e di sudore.

Avevano fatto i compiti. All’inizio, dai due lati della scrivania; poi dallo stesso lato. Poi le scarpe di tela di lei si erano avvicinate alle scarpe di gomma di lui, e all’improvviso l’odore di lei non era più buono come un tempo. Sul pavimento, proprio davanti ai miei occhi, adesso c’erano quattro scarpe abbandonate, mescolate tra loro, e puzzavano tutte.

La rete del letto, oscillando, sfiorava il pavimento. Ma c’era luce, e dovetti attendere il buio. Non ci volle molto, per fortuna.

Scivolai fuori e rimasi a lungo a guardarli addormentati.

Mi avvicinai a Clara, fino a sfiorare con le narici la sua pelle, e chiusi gli occhi cercando di ingannare i miei stessi sensi; ma, per quanto lo desiderassi, il suo odore non era più quello di prima.

Una lacrima mi scivolò tiepida lungo la pelle liscia dello zigomo sinistro e sgocciolò sul suo viso. Lei si mosse nel sonno. Le sue dita incontrarono la spalla di lui. Sorrise, senza svegliarsi. Mi chinai su di lei e le deposi un bacio tra i capelli.

Poi mi raddrizzai, sfiorai le loro fronti con le dita, e desiderai il fuoco.

Le fiamme sprizzarono alte. Lui si svegliò dibattendosi e imprecando, ma presto iniziò a contorcersi, in agonia, e le sue urla divennero inarticolate, per spegnersi infine in un gorgoglio sfrigolante. Lo ignorai, e morì solo, come meritava.

Lei spalancò gli occhi e mi fissò.

Avevo vegliato ogni suo sonno, come le avevo promesso la notte del nostro primo incontro, ma lei non mi aveva mai visto prima di quel momento; eppure mi riconobbe all’istante.

Per un attimo, mi parve di scorgere una lacrima spuntare tra le palpebre già raggrinzite dal calore; poi i globi bollirono, e la trascinarono con sé colando lungo le guance. Le sue labbra tremarono una sola volta, in silenzio. Mi piace immaginare che dicessero “scusa”. Poi si spaccarono e caddero, come petali tra le fiamme.

Restai a guardarli fino alla fine, immobile.

Loro potevano morire, io no. Ma bruciare sì.

- Sei sordo o sei scemo? Ti ho chiesto che cazzo vuoi! - urla lei, strattonando con violenza le cinghie.

- Puzzi - le rispondo solo.

Poi allungo verso la sua fronte il moncherino carbonizzato di quella che era stata la mia mano; la sfioro, e desidero il fuoco.

Io sono l’uomo nero, e non posso morire.

Ma bruciare sì, ogni volta.