Non male questo terzo album della one man band canadese Ov Hollowness: dieci track di black/ambient piene di malinconia e grande drammaticità ma che data la loro lunghezza e complessità hanno bisogno di più di un ascolto prima che tutte le sfumature possano essere colte e assimilate. La voce graffiante e malvagia ricorda a tratti il quella dei Bathory di Under the sign of the Black Mark, e le chitarre trasmettono sempre una grande maestosità. Il risultato è un tappeto sonoro che, anche se un po’ monocorde, è nel complesso coinvolgente e mai stancante, grazie soprattutto ai cambi di ritmo piuttosto frequenti che sanno accentuare gli stati d’animo dei brani (rabbia e maestosità sul veloce, drammaticità sul rallentato).

Ciò che mi ha più colpito del disco è che questi stati d’animo riescono a essere espressi bene e con tutta la loro forza nonostante una certa pacatezza di fondo che la produzione ha dato loro e, title track a parte, non li fa veramente esplodere e fa mancare loro aggressività. Ma questo non è un male, a mio modo di vedere. Chi ama il genere black/ambient sarà ben felice di ascoltare tutto l’album, per gli altri la sua lunghezza potrebbe risultare eccessiva col rischio che la noia alla fine abbia il sopravvento. Per evitare questa evenienza suggerisco i brani che meritano assolutamente un ascolto:

- Hoarfrost, dall’incedere lento ed epico, di una maestosità e di una disperata convinzione che il sentiero su cui si sta faticosamente camminando va percorso con la cupa convizione di arrivare fino alla fine. La voce 'quorthoniana' è davvero di grande effetto

- la title track, The World Ends, che meglio di ogni altra canzone riesce a racchiudere ed esprimere tutti gli stati d’animo del disco in un solo brano: l’unico che presenta una voce esclusivamente pulita e forse anche l’unico aggressivo, che esplode e ci investe in pieno con tutta la sua rabbia.  Il miglior episodio del disco.

- Hollow, il più drammatico dei brani e quello dall’atmosfera più tesa, nonostante un  momento affidato solo a una chitarra arpeggiata che arriva subito dopo il miglior assolo (basato su chitarra tremolo) e la migliore melodia di tutto il disco.

End in View è invece il brano che presenta i momenti più distesi, affidati alle aperture acustiche (benché presenti sin dall’inizio) e al lungo ritornello epico che dà una certa idea di commiato: siamo alla fine e il viaggio è quasi finito. Questo infatti è l’ultimo vero brano del disco, visto che la successiva Outro altro non è che una lunga coda cupa e minimalista affidata alle tastiere.

Se questi brani hanno convinto (cosa probabile) si passi ad ascoltare tutto il disco: non ci si aspettino però gli stessi picchi, sempre tenendo presente però che ben poche one man band riescono a raggiungere questi livelli di coinvolgimento sonoro e buona produzione.