Uscito per la Nuclear Blast, il primo full-lenght della nuova band di Leif Edling è uno dei lavori più belli e interessanti in ambito doom degli ultimi anni. Ma Avatarium non è solo doom: troviamo qui sonorità gotiche, progressive riconducibili agli anni '70 e molti momenti acustici. La cantante Jennie Ann-Smith ha poi una voce sorprendente e interpreta maestosamente i diversi mood delle canzoni: pulita e calda, malinconica, sconsolata eppure al tempo stesso viva e piena di energia. Ed è il motivo principale per cui consiglio vivamente l'ascolto, e non solo a chi ama il doom, di questo disco sospeso tra sonorità notturne (affidate ai momenti acustici), cupa disperazione (che affiora invece negli episodi più classicamente doom, rappresentati da quelle melodie e suoni alle quali Edling ci ha abituati fin dai primi lavori dei Candlemass) che con la voce gentile e delicata di Jeannie Ann-Smith si espande e ci imprigiona ancora di più. Apparentemente può sembrare un paradosso, ma ascoltando il disco e in particolare alcuni brani come  la splendida Moonhorse, la title track o Boneflower la sensazione è quella di una catarsi gentile. Alla batteria troviamo l’ex Tiamat Lars Sköld e alla chitarra Marcus Jidell (Royal Hunt).

Il primo brano, Moonhorse, si apre con una melodia doom e rallentata, in pieno stile Candlemass ma poi di colpo diventa una ballata acustica di sola voce e chitarra con le prime parole di Jennie che ci sussurrano "O mother are there any horses on the moon? I saw them last night from the kaleidoscope tube". In questa frase si può forse racchiudere buona parte del mondo degli Avatarium: poesia, dubbi, visioni, sogni e paure.

Di nuovo si torna al riff iniziale e ancora una volta alla voce e chitarra acustica. Il finale del pezzo è una melodia che schiude le paure e le angosce: cambia la tonalità, anzi cambia proprio la canzone visto che ciò che si ascolta adesso è molto diverso dalla Moonhorse che ci aveva accompagnato finora. Ma attenzione: se musicalmente rappresenta una frattura netta con la canzone ascoltata, le emozioni tenute nascoste esplodono: paura, disperazione, angoscia che la voce di Jennie sottolinea e ingentilisce, rendendole più dolci e sopportabili, così che non vogliamo uscirne più, rapiti da cupa maestosità e bellezza.

Pandora’s Egg si apre invece con un arpeggio triste, stato d’animo sottolineato dalla voce, che si incupisce quando entrano le chitarre elettriche e la batteria.

Avatarium è il pezzo più lungo e quello che insieme a Bird Of Prey mi ha ricordato maggiormente i vecchi Candlemass: pieno di momenti acustici sospesi e un ritornello rallentato e drammatico in pieno stile doom ancora una volta ottimamente interpretato da Jennie.

La più orecchiabile del disco invece, Boneflower, ci accarezza maliziosamente e ci conduce verso dimensioni goth e horror (con la tastiera hammond alla fine del pezzo che sottolinea la gentile minaccia di qualcosa di sinistro che sta per capitare).

Nel primo minuto della successiva Bird Of Prey avrei potuto sentire alla voce anche Messiah Marcolin invece di Jennie, tanto la melodia vocale mi ricorda i vecchi lavori dei Candlemass. La cosa non deve sorprendere o farci storcere la bocca visto che Leif Edling ha scritto quasi tutto il repertorio della sua band più famosa: è logico, e anzi persino bello ritrovare un cantato così. Molto suggestivi infine voce e piano che hanno il pregio di mettere pace in un pezzo che non aveva un’idea precisa di dove andare, sospeso com’era tra doom e progressive e con entrambe le parti che per tutta la durata hanno cercato di prevalere l’una sull'altra.

La minacciosa Tides Of Telepathy è invece fredda: anziché emozioni e ispirazione troviamo solo grande cupezza e disagio, sottolineate dal rullante di Sköld  che scandisce per lunghi momenti il tempo della canzone a mo’ di funesta marcia militare. La seconda parte del pezzo invece cambia completamente e ricorda la già sentita Boneflower: qui però non c’è malizia, solo una gran cupezza e questa volta mancano le emozioni a unire la prima e la seconda parte che davvero risultano un po’ troppo diverse, tanto che potrebbero essere due canzoni slegate l’una dall'altra e non un unico brano come ci viene presentato.

La conclusiva Lady In The Lamp è una triste e sognante ballata alla quale viene data anima prima dalla voce e nella seconda parte dal migliore assolo di chitarra del disco, che chiude un lavoro davvero di alta qualità.

Sarebbe interessante vedere la band in qualche esibizione live ma al momento, purtroppo, non si sa ancora quando inizierà un tour. Le uniche due date segnate sul loro sito ufficiale sono il primo marzo a Umeå, in Svezia, e il 13 Aprile a Tilburg, Olanda per il Roadburn Festival 2014.