La rabbia gli montò dentro come un fiume in piena. Cacciò un grido e si avventò sull’uomo, dimenando le braccia. Aveva perso il controllo. Protese le mani e si gettò in avanti con tutto il peso del corpo. Perse l’equilibrio e rovinò a terra, ferendosi il mento con una lattina arrugginita. Non se ne accorse nemmeno. Si alzò e si costrinse a riprendere la corsa. Anche il suo bersaglio però aveva ricominciato a muoversi ed era molto più veloce di lui.

Strinse i denti, riversando nelle gambe ogni briciolo di energia rimasta. Il dolore, l’angoscia, l’impotenza e la rabbia accumulati negli ultimi mesi gli esplosero dentro, permettendogli di guadagnare terreno. Ora il miraggio aveva assunto l’aspetto di un uomo: il desiderio si era fatto carne e lo guidava verso il traguardo della vendetta.

Il sole scomparve, divorato dalle nuvole nere all’orizzonte, e un velo di nebbia si alzò dal mare, inghiottendo il mondo con la sua consistenza eterea e ovattata. Paolo procedeva risoluto, sorretto da un istinto feroce, mentre la realtà attorno a lui si distorceva in un labirinto di specchi. Solo la caccia era importante e quando anche l’inseguito sparì, rapito dalla coltre bianca che li avvolgeva, Paolo si inginocchiò al suolo, procedendo carponi per non perdere di vista le orme.

D’un tratto fu certo di averla sentita: la voce della sua bambina invocava giustizia dal mare. Strinse ancora più forte la catenina che teneva nel pugno. Quando aprì la mano per cercare conforto nella piccola croce dorata, trovò solo un frammento di conchiglia conficcato in profondità nel palmo livido. Le sue illusioni andarono in frantumi e fu allora che una nuova consapevolezza si fece largo dentro di lui: doveva tornare sui suoi passi. Poteva ancora farlo.

Pochi minuti e la nebbia assunse una consistenza solida, tangibile. Paolo arrancava sulla sabbia, tastando la terra bagnata per riconoscere le impronte ormai celate dalla foschia. Erano la sola via per il ritorno. Lo stavano guidando di nuovo alla vita. La fiammella della speranza si accese infine anche nel suo cuore appassito.

Poi fu l’orrore. Le orme si moltiplicarono, si deformarono, si sovrapposero e quindi si confusero in un intreccio indistinto. La spiaggia ne fu invasa e la strada di casa andò perduta per sempre. Ed ecco avventarsi su di lui una figura deforme, il corpo irsuto segnato dal ricordo di antiche cicatrici, gli artigli aguzzi ingialliti dal tempo. Sei dita, sei zanne, sei corna.

La belva lo scaraventò a terra e lo trascinò supino fino all’imbocco di una cavità scavata nella roccia. Paolo vide il cancello in ferro battuto che ne sbarrava l’ingresso e le parole latine incise al sommo della soglia. Sentì l’eco delle sue grida estinguersi nel vuoto, infine anche la luce si spense.

Tentacoli. Mostruosi ed enormi. Squame. Mille occhi di tenebra. Altri con me. Immobili, assenti. La Cosa li avvinghia. Non voglio vedere. Stritola, annienta. Mi costringono a guardare. Membra mozzate. Corpi violati. Pioggia di sangue, scarlatto e viscoso. È un incubo?

Fuga. Devo scappare. Verso la galleria. Corro, inciampo, cado. I carcerieri mi afferrano. Spinto a terra. Sabbia nelle narici. Pietà!

Carne. Flaccida, scivolosa. Non respiro. Abbraccio perverso, stretta, groviglio. Il baratro si avvicina. Denti di squalo, avorio affilato.

Caduta. Acqua, cerulea e gelata. Annaspo alla ricerca di ossigeno. Vedo la Cosa sopra di me. Mi immergo. Una luce, in profondità. Nuoto. Giù, ancora più a fondo. Occhi che bruciano, vista offuscata. Devo farcela!

Passaggio. Minuscolo e impervio. Infilo la testa, fianchi incastrati. Mancanza d’aria. Mi aggrappo alle pareti. Spingo. Di nuovo libero. Sollievo, cristallino e fugace.

Smarrimento. Ipossia. Scorgo la fine del tunnel. Una corrente fredda mi spinge in avanti. La sua voce dagli abissi. Perdona!

Mare aperto. Risalgo, respiro. Il chiarore della luna. Le stelle. Sono tornato.

Terra. Riesco a vederla, in lontananza. Cullato dalle onde, lascio che i flutti mi trascinino dolcemente a riva. Sfinito, redento.