L'uscita di un nuovo lavoro targato Iron maiden è un evento che difficilmente passa inosservato. D'altronde, una band della loro caratura ha ben poche difficoltà a far parlare di sé. Trent'anni di luminosa carriera alle spalle, quattordici album in studio all'attivo, nonché una nutrita schiera di fan di tutte le età sono elementi già da soli sufficienti a giustificare la risonanza dell'evento. Esce così The final frontier, fatidico quindicesimo full-lenght a portare il loro marchio stampato in copertina.

La voglia di guardare al passato la si percepiva già quando si scoprì che l'album sarebbe stato registrato presso i Compass point studios, dove la band registrò Piece of mind (1983), Powerslave (1984) e Somewhere in time (1986). La copertina stessa sembra ribadire il concetto, presentando l'album in pieno stile Iron, né più né meno.

L'impatto con il timer, che segna la durata complessiva di un'ora e un quarto abbondante, non traumatizza più di tanto, dato che già con i due precedenti lavori i nostri ci avevano rifilato due sberle da più di sessanta minuti l'una. Satellite 15... the final frontiers è introdotta dal basso di Steve Harris, seguito subito da batteria e chitarre, che si esibiscono in una lunga cavalcata per poi sfumare e dare spazio alla voce di Bruce Dickinson. Il pezzo ci mette quasi cinque minuti a decollare, sfociando in una classica melodia heavy che però sa un po' troppo di già sentito. Il semplice giro di chitarra, sul quale si alternano il cantato del frontman e gli assoli delle tre asce, è ripetuto pressoché uguale a se stesso fino alla fine del brano. El dorado, il singolo scelto per promuovere l'uscita dell'album, è un pezzo onesto, pregno dello stile degli Iron maiden dei tempi d'oro, che non riserva sorprese, ma sembra mancare di carica travolgente dava loro una marcia in più. Il discorso cambia poco per Mother of mercy: la qualità e la tecnica sono presenti, ma mancano la fantasia e lo spunto necessari a dare dinamismo alla traccia. Persino il cantato di Dickinson sembra non riuscire a essere incisivo come ci si aspetterebbe. Insomma, tutto si svolge troppo come previsto.

Coming home esordisce con un giro di arpeggi interessante, ma si estingue quasi subito in una ballata in cui l'impegno vocale di Dickinson riesce a dare un minimo di colore in più, ma senza meritarsi troppa attenzione, complice anche qui l'eccessiva ripetitività. The alchemist cerca di far riprendere la velocità persa, ma qui la sensazione di già sentito prende talmente il sopravvento da far sembrare gli Iron maiden una cover-band di se stessi.

Se fin qui i brani avevano avuto una durata più o meno consona, da Isle of Avalon in poi si sforeranno sempre gli otto minuti. La traccia esordisce con le linee semplici di chitarra che anche qui ripetono un breve riff, cercando ad accompagnare, con scarso successo, Dickinson nel suo crescendo. Una volta lanciato però il pezzo comincia funzionare. I passaggi si fanno più variegati e c'è anche un po' di quell'energia che nella prima metà sembrava essere del tutto assente. Peccato solo per la durata: un minutaggio inferiore a quello dei nove minuti di cui consta avrebbe garantito un'efficacia superiore. L'arpeggio introduttivo di Starblind si lascia apprezzare, ma nell'esatto momento in cui Dickinson attacca le speranze che il disco evolva in qualcosa di interessante vengono di nuovo stroncate. Il brano si riduce così a una serie di riff usati e abusati, sentiti e risentiti che si ripetono ad libitum fino alla fine.

Con il cuore rassegnato si arriva ad affrontare The talisman, che, con la sua lunga introduzione acustica, rischia di trasformare la rassegnazione in sonno, dando il colpo di grazia all'ormai provato ascoltatore. Tuttavia, la repentina incursione delle cavalleria permette di riprendersi dal sopore e di apprezzare quello che si rivela il brano più riuscito del platter. Ancora un incipit lento per The man who would be king, che anche in questo caso si trasforma in una serie di arpeggi, alternati a cavalcate di chitarra che si sviluppano in un crescendo che riesce a rendersi gradevole. La stessa struttura, che sembra aver in qualche modo funzionato nei due episodi appena citati, viene riproposta con la conclusiva When the wild wind blows, che conclude il lavoro in maniera ragionevole, seppur anch'essa un po' ripetitiva e prolissa.

In poche parole, il nuovo degli Iron maiden è un album nostalgico, in cui la band cerca di far rivivere uno dei loro periodi di maggior splendore. Purtroppo scade spesso nell'autocitazionismo eccessivo e in una evidente carenza di idee. Tuttavia, nonostante la prima metà sia del tutto priva di interesse, dalla quinta traccia in avanti l'album si lascia ascoltare, non fosse solo per un'estensione temporale a nostro avviso eccessiva in rapporto alla quantità del materiale prodotto. Inoltre, nonostante i ripetuti ascolti, non vi è un solo brano che riesca a rimanere in testa o far insorgere la voglia di essere riascoltato. Se proprio vogliamo impegnarci, una vittoria per metà della metà: sono pur sempre gli Iron maiden.