È da poco uscito per Fazi Editore, nella collana Darkside, Gli unici indiani buoni scritto dal pluripremiato Stephen Graham Jones, vincitore nel 2020 del Bram Stoker Award e del Shirley Jackson Award.

Gli unici indiani buoni racconta le vicissitudini di quattro giovani nativi americani: Ricky, Lewis, Gabe e Cassidy che, per spezzare la noia della vita in riserva, decidono di andare a caccia di cervi wapiti in una zona a loro interdetta perché riservata agli anziani. Come si può intuire sin dalle primissime battute del romanzo, la situazione sfugge ben presto di mano e quella che doveva essere una semplice battuta di caccia si trasforma in un massacro che segnerà per sempre il loro futuro.

Il primo a dover fare i conti con quanto successo dieci anni prima è Ricky che, fuggito dalla riserva, trova lavoro in North Dakota nella speranza di rifarsi una vita, ma il passato non perdona, mai. Ecco che, uno ad uno i quattro vengono perseguitati da un’oscura presenza che infesta le loro vite e, pian piano, fa a pezzi il loro mondo.

Si può affermare con sicurezza che Stephen Graham Jones utilizzi la chiave dark e thriller per descrivere al lettore meno avvezzo le problematiche sociali e psicologiche che ancora colpiscono i nativi americani, inseriti a fatica in una società, quella bianca, che non ha mai fatto i conti con le proprie responsabilità.

Gli unici indiani buoni pecca nella volontà di spaventare, tanto che le prime scene volutamente horror vengono presentate molto avanti e non possiedono una forte carica immaginifica o terrificante. Ciò che rende interessante il romanzo, è però la volontà di approfondire le identità dei personaggi, la loro scissione interiore. Ricky, Lewis, Gabe e Cassidy sono dei reietti, che lottano per trovare un posto in un mondo che fa di tutto per tenerli ai margini, sempre e comunque: i quattro Piedi Neri non sono mai usciti da quella tenda e l’uomo bianco non li ha mai accettati.

Questo è ciò che l’autore vuole raccontare e lo fa con una prosa complessa, a tratti intricata, fatta di situazioni che appesantiscono la trama e, di per sé, non sembrano arricchirne l’intreccio.

Gli unici indiani buoni rimane però un romanzo interessante, ricco di suggestioni che fanno riferimento a un immaginario, legato al folklore nativo, che non popola di frequente le pagine della letteratura.

Forse Stephen Graham Jones avrebbe dovuto spingersi più verso quella direzione, affidarsi maggiormente alle sue origini e non perdersi in inutili discorsi che, alle volte, risultano fin troppo macchinosi e inconcludenti.

Gli unici indiani buoni ha le caratteristiche di una scommessa mancata, una partita dove il giocatore ha sì, giocato bene, ma non si è spinto oltre, non ci ha creduto fino in fondo e, in fin dei conti, ha perduto la possibilità di spaventare davvero, di popolare l’incubo.