Il recente tour di reunion degli Slint ci fornisce la legittima occasione e scusa per parlarvi di uno dei dieci album fondamentali degli anni novanta, pietra angolare sulla quale misurare tutto il post-rock (o math-rock) e territori limitrofi.

Correva il 1991 e i nostri erano reduci dall’esperienza dell’EP Tweez, prodotto da Steve Albini, engineer geniale ma forse fin troppo “prepotente” e uniformante. La Touch & Go si fida di questo gruppo nato dalle ceneri dei mai dimenticati Squirrel Bait e i quattro entrano in studio fra litigi e momenti di grave crisi (si vocifera addirittura di pesanti cure psichiatriche) affidandosi alle cure di Brian Paulson per quel che concerne il lavoro al mixer.

Ne risulta uno dei più angoscianti viaggi nella psiche, sei composizioni in tormentato equilibrio fra i sussurri di una voce (am)malata e il ciclotimico suono di una chitarra mai così fredda e insieme bollente. Spiderland è un percorso sempre in apnea, nel quale la perdita, l’entropia e la lacerazione del proprio animo vengono raccontati con tono compassato e sussurrato, quasi fossero drammi accaduti non a noi ma a qualche remoto e assente visitatore.

Raramente una scaletta è stata organizzata con altrettanta precisione chirurgica e qualsiasi altra disposizione dei brani sarebbe impensabile.

Breadcrumb trail è la scia di briciole di pane che ci lasciamo indietro nell’oscuro bosco della nostra mente, certi di ritrovare la via d’uscita mentre corvi folli e invisibili le divorano man mano che le lasciamo cadere al suolo, i momenti soft preludono agli sfoghi di chitarra e voce, lampi che non riescono a illuminare il buio.

Nosferatu Man si apre con una gelida sezione ritmica che serve da implacabile metronomo alla voce di Brian McMahan, ora un bisbiglio ora un urlo stonato, dissonante. La sua chitarra è puro stridìo, il vampiro è alle porte, inutile ribellarsi a Sua Signoria Angoscia.

Don, Aman sembra un racconto di Raymond Carver sotto dieci psicofarmaci diversi, per fortuna arriva Washer e sembra di pigliare 50 gocce di Lexotan, sensazione di caldo alla base della nuca, McMahan augura la buonanotte al suo amore, sembra un addio definitivo su un indimenticabile arpeggio, il momento più caldo ed emotivo dell’intero disco. “So che è buio, fuori. Non devi aver paura. Ogni volta che ho pianto di paura è stato per errore”. Brividi anche al millesimo ascolto.

For dinner lavora sulla catatonia fino a espanderla a viaggio allucinatorio, lisergico, e Good Morning Captain si prostituisce al ritmo più facile, ma è una sgualdrina di lusso, vi innamorerete e spenderete tutti i vostri risparmi per visitarla sera dopo sera. Echi dei Fugazi, e siamo in paradiso (o all’inferno, è uguale, regna il gelo comunque).

Chiamatelo come vi pare: slo-core, punk, progressive, echi di jazz, ritmiche ingolfate, spezie arabe, riflessi di grunge… forse solo ottima musica?

Ora i nostri si sono riformati, ma noi preferiamo ricordarli come nella fotografia che potete vedere qui a lato. Affiorano dalla superficie di un lago incerti (inconsapevoli?) se annegare o cercare di nuotare ancora un po’.

Capolavoro assoluto.