- Vediamo quel braccio, prima.

Ha il timbro nasale di quelli eternamente raffreddati. Il che me lo rende ancora più simpatico, se non bastasse che – credo – mi ha appena salvato la vita. Gli mostro i buchi rossastri subito sotto il polso. Lui non dice niente, ma si toglie la sciarpa multicolore con ampi gesti del braccio. Quando ha finito, sembra più piccolo e indifeso.

Me la avvolge strettamente intorno alla ferita. Mi vengono in mente due possibili obiezioni da mamma infermiera, prendo fiato ma all’ultimo momento lascio stare. Non mi metterò a discutere con uno che mi ha appena salvato da un cane rabbioso e il suo gatto-zombi con una fila di pennarelli e un rotolo di carta igienica.

- Guarirà - mi limito a chiedere, - o verrà la lebbra anche a me?

- Non è un morso contagioso - mi risponde mentre si allontana a grandi passi verso il tavolo al centro dello stanzone.

Mi guardo intorno: siamo in penombra, in giro si distinguono scaffali e casse di legno e tavoli coperti da fogli di giornale. Fa un caldo umido. Il braccio fa ancora male, però da qualche secondo ha cominciato a formicolare, come se la ferita si stesse riparando. Faccio per infilare un dito sotto la sciarpa, quando la voce del mio salvatore mi interrompe:

- Gli piacciono le cose morte. - Posa lo zaino a terra e prosegue scuotendo la testa. - Solo che, dopo, non sono più tanto morte. - E io gli credo. Perché l’ho visto. - Quella strada era già sua. Ha avuto il tempo di lavorarci. Ecco perché ti ho detto di non guardare.

Improvvisamente, non voglio saperne altro. Reprimo un brivido e cambio discorso: - Cos’è questo posto? - Sarebbe perfetto per inventarsi qualche gioco spaventoso.

- Io lo chiamo il Laboratorio.

Ancora un colpo sulla porta.

- L’ho visto prima io - dice una voce petulante e attutita, da fuori. Altri colpi.

- Non farci caso - replica Doc, - tanto qui non ci entra nessuno. - Con un unico gesto fa volare a terra i fogli di giornale. Sul tavolo, ampolle e provette e alambicchi e fornelli e…

Doc gira un interruttore, e la luce mi acceca per un attimo; poi, a poco a poco, metto a fuoco i contorni delle cose.

Ci sono barattoli ovunque, di tutte le dimensioni. Sugli scaffali, sulle casse, persino per terra. Barattoli pieni.

Di cose che si muovono. Topi, criceti, gattini, passeri. Solo che hanno tutti qualcosa di strano. Troppe zampe. Occhi spaiati. Bubboni brulicanti di vita.

L’orrore che ho in volto deve valere qualche spiegazione, perché Doc si ferma pazientemente a raccontare: - Ti ho detto che papino ama le cose morte. Io preferisco quelle vive. - E accende un fornelletto sotto un contenitore pieno per metà. - E poi non è vero che ti ha visto prima lui. Secondo te, chi ha pagato quella carogna di Franzi per metterti sulla strada giusta? - aggiunge seccato. Io continuo a non trovare le parole. Ma lui non ha ancora finito: - Che deve fare un bambino iperattivo quando il padre passa l’intero giorno fuori casa a insegnare Storia e mangiarsi anime? Dovevo pure trovarmi un hobby. - Non riesco ad aprire bocca. - A proposito, non ti dispiace aiutarmi col prossimo esperimento, vero? - Sfodera un sorrisino da marachella. - Oh, tranquillo, è già bello che iniziato. Meglio che ti trovi una sedia.

Il braccio. La sciarpa. Formicola. Punge.

Con dita tremanti mi affanno a tirare via metri e metri di stoffa multicolore, ma sembra non finire mai. Formicola. Morde.

Esito solo per un attimo davanti all’ultimo giro di sciarpa, poi lo strappo via.

Urlo, e il braccio urla con me.