- Che sarebbe? - ho chiesto, accendendo una sigaretta. Matteo si era avvicinato al muro ed esaminava la bizzarra figura dell’uomo-camoscio.

- Sì, bravo, fuma - ha sogghignato Daniele. - Il Gigiàt è una creatura del folclore di queste vallate. Un essere a metà tra camoscio e uomo, un familiare dispettoso verso chi non rispetta le montagne, un mostro puzzolentissimo.

- Come te, Gigi - l’ha interrotto Matteo, e siamo scoppiati a ridere.

- Io le montagne le rispetto, ma certo che ‘sto Gigiàt è proprio brutto - ho detto, osservando il viso deforme dell’uomo-bestia. L’immagine emanava una vibrazione spiacevole.

Poi ci siamo rimessi in marcia. All’orizzonte oziavano nuvole scure.

Abbiamo raggiunto il bivacco verso le cinque di pomeriggio, quando il sole era ormai un disco aranciato dietro una spessa coltre di nubi. In lontananza riecheggiavano tuoni. Cupi, minacciosi.

- Entriamo, mangiamo e mettiamoci a dormire. Sperando che domattina non piova - ha proposto Daniele.

Matteo ha aperto la porta del bivacco. All’interno quattro brande, un tavolo, coperte, un fornello a gas. L’indispensabile per trascorrere la notte a 2.600 metri di quota. Ma c’era qualcos’altro.

Un odore terribile.

Dal soffitto, legato a una corda, pendeva un groviglio di serpi decomposte ed erbe di montagna. La mescolanza degli odori creava un aroma rivoltante.

- Ma che cazzo è quello schifo? - ho sbottato.

Daniele, tappandosi il naso, ha rimosso il macabro viluppo e l’ha esaminato. - Sembrano vipere. Ed erbe alpine. Non so cosa sia, ma non si può dormire con questo tanfo.

È uscito dal bivacco e ha scagliato il fascio putrido lontano, in un canalone.

Abbiamo cenato, le teste chine per la stanchezza, poi ci siamo coricati sulle brande, nei sacchi a pelo.

Ci siamo addormentati quasi subito.

Pioveva.

Mi sono svegliato per il freddo. La porta del bivacco era spalancata. Matteo aveva lasciato la branda. Immaginai fosse uscito per pisciare. Mi sono alzato.

- Ehi, vuoi farci gelare? - ho urlato all’indirizzo della notte. Non pioveva più.

Ho visto il mio amico, una decina di metri alla sinistra del bivacco. Teneva le braccia lungo i fianchi. Era scalzo. Il suo busto ondeggiava avanti e indietro, lentamente. Non mi ha risposto. Sembrava ipnotizzato. Daniele si è svegliato e mi ha raggiunto.

- Che succede?

- Non lo so. Che tu sappia Matteo è sonnambu

Non ho potuto concludere la domanda, interrotta dalle urla di Daniele.

Puntava un dito verso l’esterno. Mi sono voltato, ho seguito con lo sguardo la direzione del suo indice e l’ho vista. Non dimenticherò mai quell’immagine.

Su una roccia, a pochi metri da Matteo, c’era una vecchia illuminata dal chiarore della luna piena. Indossava una camicetta lisa, calze marroni, un paio di ridicole scarpette ortopediche. Ai suoi piedi, una bicicletta ritorta.

Poi la luna è parsa brillare con maggior intensità, scagliando un chiarore azzurrino sulla donna: abbiamo scorto la sua testa sventrata, il giallo del cervello che occhieggiava dal cranio sfondato, le gambe rotte, la bocca sdentata tirata in un rictus.

Matteo ha urlato: - No! Non l’ho fatto apposta! Per favore, non volevo!

Dopo, tutto si è svolto in una manciata di secondi. La vecchia si è come dissolta in un vapore grigiastro ed è stata sostituita da qualcosa. Qualcosa che non riuscirò mai a descrivere.

Era ghiaccio. Era l’oscurità e la solitudine dei crepacci innevati. Era i picchi martoriati dalle tempeste. Era il mistero di tutti gli alpinisti svaniti nel nulla. Era camoscio, uomo, bestia, dio. Era la Montagna con tutti i suoi orrori e segreti.

Una massa indefinibile è balzata fuori dalle tenebre, accompagnata da una raffica di vento fetido. Odore di muschio e carogne. Matteo è stato sollevato a un’altezza vertiginosa da dei filamenti bianchi come latte, poi è svanito nell’oscurità. L’abbiamo sentito urlare, strepiti di agonia, finché la sua voce si è interrotta di colpo.

Daniele mi ha spinto di lato e si è lanciato nella notte. - Matteo, no!

Sono rimasto avvinghiato allo stipite della porta, tremando e piangendo, i pantaloni bagnati.

Quando Daniele è tornato, pochi minuti dopo, era fuori di sé. Non so cos’avesse visto là fuori. La sua mente aveva ceduto.